Lo ripetono in tutte le scuole di scrittura creativa ed è uno dei fondamenti della sociologia della narrazione: l’essere umano ha bisogno delle storie per riconoscersi nelle situazioni, comprenderle davvero, non solo dal punto di vista razionale, ma partecipando emotivamente. Quando la letteratura non assolve al suo compito, alcuni mondi rischiano di restare sommersi tra le tante notizie d’attualità che assorbiamo più o meno passivamente. Capannone N.8 di Deb Olin Unferth è un romanzo raro, surreale e importante che racconta una storia di animalismo, a partire da personagge e personaggi, ricerche approfondite sul tema, facendo di una delle questioni più importanti dell’epoca attuale, cioè lo sfruttamento degli animali, una storia.
Il testo è ambientato in Iowa (USA) e per lo più negli allevamenti intensivi di galline ovaiole, in stabilimenti industriali composti da capannoni che contengono al loro interno centinaia di migliaia di uccelli, assiepati all’interno di gabbie in cui: «devono essere in grado di incassare l’offensiva di dosi massicce di vaccini, di sopportare sovraccarichi e privazioni sensoriali, una ressa che neanche dentro la borsa di Mary Poppins, le beccate feroci delle compagne di cella. Devono saper resistere alle malattie. Devono tollerare la violenza, il rumore e il panico senza farsi venire un infarto (come capita a molte, a quanto pare)».
Janey arriva in Iowa da New York, per incontrare suo padre che non ha mai conosciuto e per fare un dispetto alla madre Olive, che pure ama molto, ma che non le aveva mai detto la verità su quest’uomo, in effetti molto deludente. Nonostante la ragazzina capisca fin dal primo momento nella casa di questo sconosciuto che l’unica cosa giusta da fare è tornare al suo liceo, al suo gruppo di scacchi e a quello di oratoria, soprattutto da sua madre, che da sola è riuscita a impartirle un’educazione equilibrata, a instillarle il valore dell’impegno, non lo fa. Resta a dormire sul divano di quella casa sudicia, in quel posto incomprensibile.
Anni dopo questa scelta tanto assurda, quanto poi inevitabile e dolorosa, Janey incontra Cleveland, un’ispettrice degli allevamenti intensivi di ovaiole e decide di darle retta solo perché questa donna all’apparenza così noiosa e inutile, il cui mestiere consiste nel prendere nota dell’orrore dell’industria delle uova, conosceva sua madre. Molto bene.
L’idillio tra le due porterà a ordire un piano assurdo, o meglio Janey e Cleveland maturano insieme il desiderio di realizzare l’utopia della libertà delle galline, la loro evasione dalle gabbie, che come tutte le utopie che si rispettano non è realizzabile. Ad affiancarle in questo sogno di libertà aviaria ci sono vari personaggi: Dill, Jonathan, soprattutto Annabelle, che condividono tutti la scelta dell’animalismo, la vocazione di dedicare la propria esistenza attraverso atti di sabotaggio sotto copertura, alla liberazione degli animali. Nessuno di loro però ha mai avuto un obiettivo tanto ambizioso quanto quello di Janey e Cleveland, il cui piano prevede di liberare quasi un milione di galline, il numero di uccelli allevati in un singolo, piccolo allevamento di ovaiole dell’Iowa.
La storia avvincente racconta di queste due donne, di come nessuno degli altri personaggi sappia rifiutarsi di partecipare a un piano che è di certo assurdo, ma non quanto l’orrore che gli esseri umani infliggono alle galline, al Pianeta, a tutti gli animali che vengono torturati negli allevamenti intensivi.
La letteratura mostra qui qualcuno dei suoi doni più belli: nel romanzo non ci sono filippiche ecologiste, ci sono le storie di personaggi eccentrici e temerari che dedicano la propria vita a lottare contro il maltrattamento degli animali e soprattutto c’è la verità sulle galline, protagoniste indiscusse di questo romanzo, unico e surreale.