Quando i lupi bramano l’acqua

Sfogliando un atlante geografico la differenza appare evidente: le carte politiche sono una ragnatela di frontiere, quelle fisiche raffigurano invece la libera espressione dei fenomeni naturali, che delle frontiere se ne infischiano e segnano il paesaggio con i loro connotati primordiali. C’è in particolare un universo liquido che ignora la frammentazione artificiale violando i confini fra gli Stati: è la rivincita, se vogliamo, della natura sulla cultura. La storia insegna e la cronaca ci ricorda che attorno al controllo delle acque la politica non ha saputo elaborare una prassi gestionale condivisa. I fiumi che scorrono da un Paese all’altro troppo spesso determinano aspri conflitti, a volte si ricorre alle armi. Anche per questo il grande problema dell’acqua è destinato a dominare l’agenda internazionale.
Gli analisti delle Nazioni unite calcolano che attorno ai laghi e ai fiumi transfrontalieri sono sorti più di 200 contenziosi, alcuni rischiano seriamente di trasformarsi in conflitti armati. La crescita demografica, che implica l’aumento dei fabbisogni idrici, unitamente alle conseguenze del degrado climatico, ha complicato le cose. L’acqua sta diventando inattingibile per troppa parte dell’umanità, le statistiche del 2020 (Unicef e Oms) ci dicono che oltre due miliardi di persone, oltre un quarto della popolazione mondiale, non hanno accesso ad acque pulite, e che circa 700 bambini muoiono ogni giorno uccisi da malattie connesse con la penuria d’acqua e di servizi igienico-sanitari.
Quando un fiume attraversa una frontiera trasferendosi da uno Stato a un altro, determina un’asimmetria fra chi sta a monte e chi a valle. Infatti qualsiasi intervento che modifichi il corso delle acque compiuto a monte produce effetti anche a valle. Accade da sempre, non a caso Fedro compose una ventina di secoli fa la sua più celebre fiaba: «Spinti dalla sete, un lupo e un agnello andarono allo stesso ruscello…». Il lupo si trova a monte e pretende di saziare, oltre alla sete, anche la fame, e quale migliore opportunità di quell’agnello a portata di fauci? Per questo lo provoca: mi intorbidi l’acqua! Ma come è possibile, risponde la vittima designata, scorre da te verso di me! Nella realtà accade qualcosa di simile: il potere è a monte, dove si attinge tutta l’acqua che serve, a valle ci si accontenti di ciò che resta!
Prendiamo il caso del Giordano. Il fiume biblico dovrebbe servire quattro Paesi: Israele, Siria, Libano, Giordania, oltre alla Cisgiordania. In realtà secondo i vicini arabi è Israele a fare la parte del leone, anzi del lupo per rimanere nel mondo poetico di Fedro. La gestione delle acque del Giordano non è certo secondaria nel contenzioso più volte sfociato nelle più cruente fra le guerre mediorientali. Ogni volta che israeliani e palestinesi riaprono, finalmente disposti a trattare, il loro spinoso dossier, la questione dell’acqua si colloca fra gli argomenti in primissimo piano.
E che dire del Tigri e dell’Eufrate, i grandi fiumi mesopotamici che nascono in territorio turco? Avrebbero ben altra portata se la Turchia avesse concordato con i Paesi a valle la gestione delle dighe per la produzione di energia elettrica e delle captazioni per alimentare l’agricoltura e dissetare le città. Ankara ha fatto tutto da sola, contribuendo secondo Baghdad alla desertificazione dell’Iraq. Un appunto analogo riguarda la Siria, che ha sempre usato a discrezione le acque dell’Eufrate senza curarsi delle conseguenze a valle.
Ma i casi più gravi, e più facilmente suscettibili di sviluppi bellici, riguardano in Asia l’India e il Pakistan, in Africa l’Etiopia, il Sudan e l’Egitto. Poco dopo l’indipendenza dell’India e del Pakistan fu negoziato un trattato che distribuiva fra i due Paesi le risorse del bacino dell’Indo. Esattamente come la controversa definizione della frontiera comune, l’attuazione di quel trattato è fonte di profondi attriti fra Nuova Delhi e Islamabad. Quando l’India decide di costruire a poca distanza dal territorio pakistano una diga sul fiume Ravi, affluente del Chenab che a sua volta sbocca nell’Indo, il Governo pakistano protesta, i toni si fanno sempre più duri, le minacce reciproche sempre più esplicite. Si profila così sull’inquieto orizzonte del mondo la sinistra prospettiva di una nuova guerra fra due potenze che dispongono di armi atomiche.
Quanto all’Etiopia e ai suoi vicini, il conflitto nasce dalla costruzione della più imponente diga del mondo, denominata Gerd (Great ethiopian renaissance dam). Sbarra a poca distanza dal confine sudanese il corso del Nilo Azzurro, che confluendo a Khartum col Nilo Bianco contribuisce a formare il grande fiume che da sempre alimenta l’Egitto. Realizzata da un’impresa italiana, la diga è alta 170 metri e lunga quasi due chilometri. La centrale costerà sei miliardi di dollari, a cose fatte permetterà di sviluppare una potenza superiore ai sei gigawatt, produrrà dunque energia per le esigenze etiopiche e per l’esportazione. Il problema ha due facce: c’è una prospettiva a lungo termine di riduzione della portata del Nilo, che il Sudan e l’Egitto sono disposti ad accettare in cambio di energia elettrica.
L’altro aspetto del problema è al centro del dissidio: prima che la Gerd vada a regime bisogna riempire un invaso artificiale di quasi duemila chilometri quadrati, un lago cinque volte più grande del Garda. Ci vogliono settantaquattro miliardi di metri cubi d’acqua, l’operazione durerà alcuni anni: quindici o venti chiedono al Cairo, cinque secondo Addis Abeba. Ma un riempimento così rapido avrebbe l’effetto di minimizzare a lungo la portata del Nilo proprio mentre la popolazione egiziana cresce a ritmi altissimi: ha superato ormai i cento milioni. E poi che ne sarebbe dell’agricoltura sudanese, dei raccolti di cotone e caffè?
Il fatto è che l’Etiopia, dissanguata dai disastri naturali e dalla guerra del Tigrai, ha un disperato bisogno di risorse, per questo ha fretta. Al Cairo s’invoca una gestione regionale delle risorse idriche, che superando gli egoismi della sovranità potrebbe appianare questo e altri conflitti. Ma l’Etiopia non vuole sentire ragioni, esasperata da toni nazionalistici la disputa degenera in veri e propri preparativi di guerra. Quando il presidente etiopico Abiy Ahmed Ali annuncia un’accelerazione del progetto, egiziani e sudanesi inscenano una manovra militare congiunta a ridosso della frontiera, denominata Guardiani del Nilo. Il rais egiziano Abdel al Sisi rincara la dose: noi non minacciamo nessuno ma nessuno è al riparo dalle nostre forze armate!
Meno esplosivi ma non meno aspri i conflitti che si registrano all’interno di singoli Stati. Come quello che nei primi decenni del Novecento contrappose la città di Los Angeles agli abitanti della valle dell’Owens. Il caso è anomalo, perché stavolta il potere era a valle, era il potere politico e amministrativo di una città in impetuosa crescita. Per dissetare Los Angeles si deviò il corso del fiume prosciugando l’omonimo lago. Gli agricoltori e gli allevatori della valle ricorsero al sabotaggio e si arrivò ad atti di violenza, poi fu chiamata in causa l’autorità federale che dispose adeguati risarcimenti. Ma il lago Owens rimase all’asciutto, il suo recupero è tuttora fra gli obiettivi degli ambientalisti californiani.

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