Il nuovo lavoro di Giorgio Scianna è imbastito su questioni etiche, purtroppo non sempre ben sviscerate
E qui, purtroppo, inizia il campionario dei luoghi comuni, tipici di tanta narrativa italiana contemporanea. A cominciare dalla stereotipia dei personaggi, sempre visti dall’esterno e mai scandagliati nella loro profondità, e quindi ridotti a una serie di gesti prevedibili. La famiglia di Giulio risponde a un’estetica della normalizzazione già nella sua composizione: marito affermato e felice, con lavoro a Milano e villetta ai margini di Pavia; Tania, moglie volontaria in una biblioteca; Ale, figlio ventenne che accanto agli studi universitari allena a pallone i ragazzini di una comunità; Chiara, figlia adolescente che studia poco ma riuscirà a essere promossa nonostante un’interrogazione deboluccia («Boccaccio è un po’ palloso e siamo tutti stanchi alla fine dell’anno», la salva la prof), e che, pur nella sua indolenza (ma è molto dotata nella ginnastica), saprà sfruttare la prima vacanza con il fidanzatino per far visita alla madre che ha perso la bimba nell’incidente («Io mi scuso a nome della mia famiglia»).
Brave persone, insomma. Mai uno sgarbo, grandi ideali, convinzione che il mondo possa essere salvato grazie alle buone azioni, qualsiasi potenziale conflitto immediatamente disinnescato e riassorbito in un immaginario stilizzato e rassicurante. Per non parlare dei personaggi laterali: Sabrina, l’amica di famiglia con cui si confidano tutti e che per tutti, adulti e ragazzi, ha un buon consiglio; i macchiettistici manifestanti che si accampano fuori da casa Corridoni con cartelli di rara originalità («No alle macchine che uccidono») e coi quali però Ale uscirà a parlare perché in fondo sono ragazzi come noi; un magistrato ovviamente spietato che torchia Giulio per appurarne le responsabilità; un avvocato difensore che, altrettanto ovviamente, dopo le prime resistenze, diventerà un membro della famiglia.
Il tutto reso da un tessuto linguistico incolore, davvero incapace di insinuarsi nelle pieghe più nascoste del reale e macchiato qua e là da improbabili similitudini («le giornate si erano allungate come molle»; «Quando si metteva una cosa in testa, Ale era come un razzo che bruciava da solo»), stanche metafore («Quel cartello piantato sul prato si era piantato anche da qualche parte nella sua testa»), iperboli infelici (l’accordo raggiunto con i genitori perché possa partire da sola in vacanza è stato per Chiara «più faticoso dei negoziati sul disarmo del pianeta»).