La nuova Pachamama

by Claudia

Reportage  -  È in atto una vera rivoluzione a Jujuy, la provincia più povera dell’Argentina che si sta muovendo tra rivendicazioni quasi romantiche e acrobatici salti nel mondo delle nuove tecnologie

Un vento sordo e incessante. Arruffa l’erba spelacchiata della puna, la pianura graffiata dall’erosione a oltre quattromila metri dove quando il mal di montagna si impadronisce degli uomini, «oggi c’è apunamiento» ti avvertono, bisogna infilarsi un pugno di foglie di coca tra i denti per resistere.
Quassù è l’uomo a doversi adeguare all’ambiente e le culture sono come gli strati geologici, si sovrappongono senza fondersi, qolla, incas e spagnoli come le gigantesche onde di pietra rosse e verdi che si scontrano al passo di Tres Cruces.
Agricoltori precari, allevatori di lama e minatori, i qolla incollati a questo nord dimenticato al confine con la Bolivia sono una delle comunità indigene più importanti dell’Argentina, rimossi fino alla fine del secolo scorso dall’immaginario di un paese ossessionato dalle sue origini europee. Una skyline di antichi vulcani color cenere ha sempre isolato l’altipiano, collegato solo da strade che si arrotolano come spire di serpenti per raggiungere villaggi sperduti dove di notte si gela e di giorno si brucia.
A pochi chilometri dal confine con la Bolivia, doña Ermelinda mette in bella mostra sugli scaffali dell’unico emporio di Santa Catalina fagioli brasiliani e soprammobili cinesi che insidiano la tradizionale supremazia delle scatole di spezzatino di carne La Negra persino a oltre tremilaottocento metri di altezza. È il villaggio più a nord di tutto il paese dove «inizia l’Argentina», non è rimasto molto altro da dire al migliaio di anime che sopravvivono a un glorioso passato minerario svanito nel nulla.
«L’Occidente ha imposto un modello che ci sta distruggendo» tuona nella vicina chiesa padre Enrique in perenne resistencia contro globalizzatori e imperialisti, circondato da un rassicurante lunapark di santi e madonne decisamente pop, «ma per la cosmogonia andina questo è il tempo di una ritrovata armonia, e dopo oltre cinquecento anni ci sentiamo di nuovo parte del Tayantisuyo, l’impero inca».
Nel frattempo, due donne, quattro cani e un ubriaco ancora immerso in una borrachera suave, la sbronza dolce da domenica mattina, guardano fissi il vuoto assoluto di una piazza dove si muovono solo la polvere e i brandelli di un vecchio manifesto elettorale che prometteva de todo.
A est di Abra Pampa, con la sua stazione ormai abbandonata e un soprannome, La Siberia dell’Argentina, guadagnato sul campo con il freddo che ogni notte ghiaccia le ossa, si spalanca l’abbagliante bellezza minerale delle stratificazioni di rossi e di ocra che ricoprono la Montagna dei Sette Colori di Purmamarca e la Tavolozza del Pittore di Tilcara, star indiscusse della Quebrada de Humahuaca.
Basta guardare Google Earth per capire l’importanza di questa frattura geologica che spezza le Ande per duecento chilometri, Patrimonio dell’Umanità UNESCO dal 2003 perché da qui sono passati gli incas e le carovane spagnole cariche di oro e argento che dalle miniere di Potosì in Bolivia raggiungevano il Rio de la Plata e i galeoni in partenza per la Spagna, evitando le lunghe traversate sul Pacifico verso Panamá. Poi i giacimenti si impoverirono e da allora basta abbandonare la strada, unica colonna vertebrale di questi luoghi incerti, e non ci sono più destra o sinistra, davanti o dietro, solo piste dove il tempo dura più a lungo, come le feste che sembrano sempre lì per cominciare e non cominciano mai.
A Salinas Grandes il fumo acre delle offerte si mischia alle musiche andine sparate nel total white della terza salina del mondo mentre i salineros rendono omaggio con candele e soft drink dai colori improbabili alla Pachamama, la Madre Terra. «In Argentina lo slogan dell’indigenismo spesso serve a gruppi di potere per manipolare intere comunità» spiega con un’amarezza che si taglia con il coltello Fernando, insegnante della vicina comunità di El Moreno. «Qui della ricchezza nazionale non è mai arrivato nulla, persino i figli e la moglie possono abbandonarci. L’unica che non si dimentica mai di noi è la Pachamama, anche se l’avveleniamo con i prodotti chimici». Alle sue spalle i colori arcobaleno della wiphala, l’antica bandiera inca, sventolano su grigliate di asados, e sulle contraddizioni dei qolla conquistati dagli incas ma che con l’orgoglio del ricordo di quell’impero alimentano una brezza indigenista che fa fremere i mestizos bianchi di Salta, e può trasformare un forno solare in un grimaldello per un futuro possibile, e diverso.
«All’inizio volevamo solo rivitalizzare quinua e kiwicha, l’amaranto, piante ricche di proprietà nutritive e alla base della tradizionale alimentazione andina che possono diventare un motore di sviluppo» ricorda Armando Alvarez, uomo dalle molte vite, sopravvissuto al carcere ai tempi della dittatura dei generali, coordinatore di una radio comunitaria ma soprattutto orgoglioso del tempo in cui costruiva le prime cucine solari della regione. «Volevamo realizzare qualcosa di concreto per queste aree isolate dove il combustibile costa troppo» continua sempre più infervorato. «Quando si parla di nuove energie spesso si pensa a tecnologie complicate, qui invece tutto per funzionare doveva costare poco. Ce l’abbiamo fatta con l’aiuto di un ingegnere tedesco, Christoph Müller, utilizzando dei pannelli riflettenti Scheffler che ruotano mantenendo lo specchio nella stessa posizione rispetto al sole, senza consumare energia, e forni a energia solare che possiamo costruire noi ma abbastanza grandi che ci puoi cuocere dentro due capretti».
Oggi la Fundación EcoAndina ha installato duecentocinquanta forni solari, i più alti del mondo, e ventitré cucine solari comunitarie che scaldano scuole, alimentano cucine collettive e producono elettricità, e si pensa all’utilizzo dei carbon credits per rendere economicamente possibile l’acquisto di tecnologie solari a comunità poverissime. Per molti campesinos è l’ultimo miracolo di Tata Inti, il Dio Sole, una rinascita della Pachamama che li aiuta a conservare i prodotti aspettando prezzi migliori, senza svendere ai commercianti di Salta.
Una vera rivoluzione a Jujuy, la provincia più povera dell’Argentina dove se va bene si mangia charqui, la carne di lama seccata, e le uniche feste sono quelle che festeggiano il santo patrono o la cacciata degli spagnoli con una banda avvolta in ponchos spelacchiati. Oggi però l’altipiano si sta muovendo, tra rivendicazioni quasi romantiche e acrobatici salti nel mondo delle nuove tecnologie, perché tra questi paesaggi lunari quello che si vede non conta, conta quello che si sente.

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