A pedali lungo lo stivale

La strada dissestata corre parallela alla statale, attraverso una distesa di terra rossa arginata da muretti a secco e pale di fichi d’India giganti. Al mio passaggio qualche ulivo solitario devastato dalla Xylella sembra dar voce al suo dolore, mentre all’orizzonte il bianco delle case spicca sul blu del cielo e del mare: una cartolina. Pedalo senza tregua da quasi tre ore quando in lontananza intravedo il profilo del promontorio proteso verso est: il leggendario Capo di Leuca. In dirittura d’arrivo sollevo gli occhi verso il faro, il secondo più alto d’Europa, e mi confronto con questo colosso che dal 1866 vigila sulla marina e illumina la rotta ai naviganti. Ho pedalato milleduecento chilometri per spingermi con lo sguardo oltre l’infinito. Qui, dove nelle giornate nitide si riesce a distinguere il punto d’incontro tra il Mar Jonio e l’Adriatico, termina il mio viaggio in bicicletta, iniziato a Milano trentatré giorni fa.
In questo mese ho visto l’Italia spogliarsi dei panni primaverili per indossare quelli estivi, accompagnata dal profumo sempre più intenso dei gelsomini e dal canto sempre più insistente di grilli e cicale.
Dopo un anno di pandemia tutto è lecito, pur di partire, scuotersi di dosso il malumore e riprendersi la propria libertà: anche la strampalata decisione di attraversare l’Italia su due ruote pur non avendo mai posseduto una bicicletta degna di tale nome.
«Ma come da sola? E poi in bici? Tu sei tutta matta!». La reazione di amici e conoscenti mi scivola addosso senza effetto. La solitudine non mi spaventa. È da quindici anni che giro il mondo da sola: sono stata in Mali, Niger, Uganda, Bolivia (e un sacco di altri posti non proprio tranquilli) con lo zaino in spalla, questa al confronto è una passeggiata.
Tutto il resto però è un enorme punto di domanda. E infatti, dopo essermi illusa quando i primi chilometri scorrono lisci, i nodi dell’impreparazione vengono al pettine. Il peso mal distribuito nelle borse laterali mi sbilancia nelle frenate e anche la scelta del percorso va rivista meglio; lo capisco quando mi ritrovo a pedalare sulla statale Paullese con dei grossi bestioni accanto che mi fanno il pelo e il contropelo.
In qualche modo arrivo a Cremona, la città di Stradivari, dove incontro il maestro liutaio Stefano Conia. Mi apre le porte della sua bottega e mi racconta come nasce un violino perfetto, in quattro mesi di lavoro sapiente. La Pianura Padana cede il passo al dolce saliscendi dei colli emiliani costellati di balle di fieno e vitigni in fiore fino a quando, superata Bologna, decido di sfidare gli Appennini per visitare il borgo medievale di Dozza. Alla prima salita impegnativa il mio ottimismo si scontra con i settecento metri di dislivello da affrontare a pieno carico e poco dopo mi ritrovo a camminare sull’asfalto con la bicicletta al fianco: lezioni gratuite d’umiltà. Dozza però mi ripaga subito della fatica: qui la Street Art si fa paesaggio urbano e avvolge il borgo in un concerto di luci e colori.
All’altezza di Faenza viro verso est e mi sposto sulla litoranea, mantenendo le grandi città a debita distanza. Il piacere di pedalare lungo la ciclabile dell’Adriatico aumenta non appena lascio la Romagna ed entro nelle Marche: mille sfumature di blu sulla sinistra fanno da contrappunto alle striature delle verdi colline sulla destra.
In Abruzzo, opto per un fuori programma suggerito da Cathy, una delle tante persone generose che mi hanno offerto un letto e un pasto caldo a casa loro. Mi prendo un giorno di pausa per visitare con lei Rocca Calascio. Siamo a quasi millecinquecento metri d’altezza, all’interno del Parco nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga, e con lo sguardo abbraccio gran parte della valle del Tirino e della piana di Navelli. Alla mia destra, imponente e maestoso, si innalza il castello medievale dove furono girate alcune scene del film fantasy Ladyhawke.
Quando arrivo in Puglia mi sembra già d’intravedere il mio personale traguardo. E invece la Puglia è dannatamente lunga, ancor più se pedali a una temperatura media costante di 35°C. Sulla fatidica statale 16 un branco di cani randagi mi rincorre e mentre pedalo affannosamente forse per la prima volta mi chiedo chi me l’ha fatto fare.
Attraverso l’arida piana della Capitanata color ocra che mi ricorda i paesaggi del Sahel e poi scivolo lungo la costa, accarezzata dalla brezza del mare. A San Donaci, quasi alle porte di Lecce, stremata da caldo e stanchezza, mi trasformo in una pellegrina d’altri tempi e busso alla prima porta che incontro chiedendo dell’acqua. Entro in casa assetata e ne esco un’ora dopo, dissetata e rifocillata. La Puglia sarà pure lunga e dannatamente calda, ma l’ospitalità della sua gente non è un luogo comune.

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