Assalto al Sahara Express

by Claudia

Reportage - A bordo del treno più lungo del mondo che dal porto atlantico di Nauadibou arriva alla città mineraria di ferro di Zouerat attraverso il deserto

È lungo circa 2,5 chilometri, viaggia attraverso il deserto della Mauritania a 35 km all’ora e impiega più di 20 ore per percorrere 700 chilometri tra le dune di sabbia, con più di 200 vagoni trainati da 4 locomotive e solo uno per i passeggeri. Tutti gli altri vagoni sono destinati al trasporto delle merci. È il Sahara Express, il treno più lungo del mondo che parte vuoto dal porto di Nauadibou, città sull’Atlantico, per raggiungere la miniera di ferro di Zouerat, nel mezzo del Sahara. Un tragitto coperto due o tre volte a settimana.
Il treno appena uscito dal porto si ferma poco dopo, alle porte della città. Inizia qui l’assalto dei viaggiatori. Passeggeri abusivi che occupano i vagoni merci vuoti (all’andata) per evitare di pagare l’economico biglietto del vagone viaggiatori. Una soluzione che permette loro anche di caricare tutto quello che vogliono: copertoni, capre, bombole del gas, masserizie, cibo. Un vero assalto alla diligenza.
Si viaggia in compagnia e i vagoni merci, che altrimenti resterebbero vuoti, diventano piccoli spiazzi di convivenza e condivisione, durante un lungo viaggio caldo di giorno e freddo di notte, quando il deserto fa sentire la sua escursione termica. Non che cambi di molto la situazione per chi vuole viaggiare nell’unico vagone passeggeri, posizionato verso la coda del treno, pagando un biglietto di circa tre euro per l’intero viaggio. Ci si affolla nell’unica porta che permette l’ingresso e una volta dentro si scopre che il vagone non è altro che un contenitore con panche di legno poste lungo le pareti. Non certo una prima classe, ma neanche una terza. È solo un vecchio vagone passeggeri.
C’è chi prende posto sulle panchine, chi si siede o sdraia per terra. E ci si prepara per il viaggio sistemando le valigie da usare come cuscini e le coperte per ripararsi dal freddo della notte. Fornelli e pentole per cucinare qualcosa. Ci si guarda intorno, si accennano sorrisi e saluti in attesa della partenza. Che non è mai in orario. Il macchinista mi dice che era previsto per le due del pomeriggio, ma c’è ritardo. «E quando partiamo?» domando in modo ingenuo. Mi guarda e sorride senza rispondere.
Nell’attesa butto l’occhio dentro i vagoni merci «vuoti», che saranno riempiti dal minerale nel viaggio di ritorno. Anche qui si cerca di sistemarsi nel miglior modo possibile, sul duro pavimento di ferro del vagone, tirando fuori piccole griglie a carbone per preparare il tè e sistemando panni e drappi per la notte. Gruppi di persone raccolti per non affrontare in solitudine il lungo percorso. Nessuno li controlla nel loro viaggio da «clandestini». In un vagone, non so come, sono riusciti a far entrare una decina di pecore. Da dove mi trovo io, non si riesce a vedere la fine del treno. Tutto intorno schiamazzi, grida e risate. Finalmente, come a un segnale non concordato, ma atteso da tutti, il rettile d’acciaio si mette in moto. Sono le quattro del pomeriggio. Un movimento violento e via in direzione del Sahara settentrionale, verso quella che è una delle miniere di ferro più ricche del mondo.
E se questo treno detiene il primato di essere il più lungo del mondo, probabilmente ha anche quello di essere il più lento. Il sole si sta abbassando e il chiarore dorato entra dai finestrini. Guardando fuori, accompagnati dal lento dondolio del convoglio ferroviario e dal brusio dei viaggiatori, le dune sono infinite e cercano di catturare l’ultima luce rimasta. Quelle più lontane sono gobbe scure, nere. Nessun punto di riferimento.
Una preghiera risuona nel vagone. Quattro uomini, inginocchiati e rivolti verso la Mecca, fanno la loro giaculatoria. In un angolo, invece, una donna è intenta a preparare il tè alla menta che viene subito offerto allo straniero in segno di ospitalità e amicizia. E mentre sorseggio la mia bevanda calda osservo un vecchio seduto in penombra, e mi torna in mente che in Mauritania la schiavitù è stata abolita ufficialmente nel 1981, ultimo paese a prendere questa decisione. Abolita, ma non debellata. Chissà da che parte stava lui, se da quella dell’etnia Haratin, cioè quella degli schiavi, o se dalla parte degli arabi-berberi.
Intanto il freddo inizia a penetrare nelle ossa, mi avvolgo nella coperta e mi lascio cullare dal treno che fa poche fermate. Una di queste è a Choum. Uno scossone, la frenata del lungo rettile, mi sveglia. Pochi lampioni profilano la stazione. Scendo per vedere meglio dove siamo, anche se un passeggero mi sconsiglia di farlo, perché il treno non annuncia la partenza e potrei rischiare di rimanere a terra. Alla luce gialla delle lampade, riesco a vedere chi frettolosamente scende dal treno e chi invece sale con la stessa velocità, a occupare un posto dentro uno dei duecento vagoni merci vuoti. Il tempo di un paio di sigarette e si riparte.
Siamo a circa tre quarti del viaggio. La luce dell’alba arriva improvvisa, lame di sole entrano di nuovo nel vagone a dare sollievo dopo il freddo intenso della notte. Riprende il brusio, voci che sussurrano piano e di nuovo l’odore del tè caldo alla menta. Chi ha già fatto diverse volte il viaggio riconosce luoghi o segnali e dice che non manca molto all’arrivo. Ma il tempo non è una scienza esatta in questo viaggio. E infatti, solo dopo altre quattro ore, alle dieci del mattino, arriviamo a destinazione, la città di Zouerat. Una città nata intorno alla miniera dove la stazione d’arrivo non è tanto diversa da quella di partenza: sabbia e dune, mentre tutto intorno ci sono solo case basse e bianche con strade di terra.
Resta da vedere questa miniera, questo immenso cratere profondo più di 500 metri da dove ogni anno si estraggono più di dieci milioni di tonnellate di ferro. Immaginavo di ritrovarmi di fronte a una bolgia infernale, e invece mi devo subito ricredere. Qui si lavora con le tecnologie più moderne. Le strade sterrate della miniera sembrano il vortice di un imbuto e arrivano giù fino alle profondità dello scavo. Un via vai continuo di camion, con ruote alte due metri, trasportano il minerale di ferro verso uno scivolo che riempirà i vagoni del treno. Enormi ruspe conficcano incessantemente le loro lunghe braccia sulle pareti di roccia. Leggere folate di vento alzano nuvole di polvere rossa, rendendo il paesaggio ancora più inverosimile.
Non ci si ferma mai qui nella «fossa», come viene chiamata dai lavoratori, «perché tutto il mondo ha bisogno del nostro ferro», mi dice un operaio sotto un caschetto giallo con la tuta ricoperta di polvere. Senza dubbio la miniera di ferro di Zouerat dà una spinta importante all’economia della Mauritania. Andando verso la città incontro gruppi di operai che si salutano, è l’orario del cambio turno. Sciamano via per le strade, chi si è trasferito qui con la famiglia torna a casa, mentre gli altri si avviano verso le abitazioni messe a disposizione dalla società mineraria.
«Tutta la città vive della miniera» mi dice il giovane cameriere di un piccolo bar dove mi siedo per bere un caffè. Torno verso la stazione, dove lungo i binari già si vedono i primi passeggeri in attesa. Soprattutto tecnici od operai con le loro famiglie che rientrano a Nouadibou o, con un viaggio ancora più lungo, a Nouakchott, la capitale. Ed eccolo arrivare, il treno, per il viaggio di ritorno. Sembra uguale a quello che ci ha portato qui «ma questo è il fratello gemello» mi suggerisce un viaggiatore, pronto all’assalto per conquistare una buona postazione per la traversata del deserto.
La differenza è che adesso i più di duecento vagoni merci sono tutti pieni del minerale ferroso, pronto per essere portato alle navi in attesa al porto di Nouadibou. Questo vuol dire che per chi viaggerà all’aperto, senza biglietto, la peregrinazione sarà ancora più difficile perché in bilico sopra al materiale estratto dalla miniera, non riparati dalle alte sponde dei vagoni. Si cerca la posizione più comoda e sicura per evitare di cadere fuori durante il tragitto che a causa del pesante carico del «serpente di ferro», durerà qualche ora in più per arrivare a destinazione. I disagi non fermano e non intimoriscono i passeggeri che partono all’assalto, con il solito sottofondo di grida. Passa qualche ora e oramai tutti si sono trovati un cantuccio: l’unica carrozza passeggeri è piena, nei vagoni merci di nuovo le capre sopra la terra ferrosa, mentre grappoli di operai sono seduti sui sassi e polvere di metallo o appoggiati sulle sponde del vagone.
Si aspetta solo il via. Qui nella carrozza passeggeri un nonno sbuccia un uovo sodo al nipotino che gli siede accanto. Una donna avvolta in un abito tradizionale di un colore blu intenso parla sottovoce con sua figlia e scoppiano in una fragorosa risata. Poco prima del tramonto il lungo treno si mette in moto, destinazione Atlantico, dopo essere stato accolto dalle dune e dalla notte stellata del Sahara.

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