In cerca di celti e Banshee

Paesaggi reinventati a ogni istante da un vento che spazzola le brughiere e trasforma le colline in un chiaroscuro teatrale di nuvole che galoppano in cielo. Frammenti di un gigantesco puzzle che ognuno può completare cavalcando la propria immaginazione, perché «l’Irlanda è prima di tutto un clima» ha scritto George Bernard Shaw.
Sono le atmosfere, più che i monumenti, a evocare la presenza di un popolo sospeso nel tempo, i celti, tra le malinconiche croci di qualche cimitero dove ogni ombra evoca una Banshee, la donna-fata che con il suo pianto annuncia la morte, o quando il vento che fa cantare le mura di un forte di pietra si trasforma nella musica delle ballate dei giorni di Samhain in cui i viventi possono impunemente dare uno sguardo all’Aldilà.
Sull’«Isola di Smeraldo», mai conquistata dal mondo greco-romano, druidi e santi hanno convissuto per secoli persino nel trifoglio simbolo della Trinità per i cristiani ma anche pianta sacra per i druidi. Cresce ovunque tra l’erba umida di pioggia, anche oltre il cling-clang di un vecchio cancello che si apre su un mare d’erba senza confini, un luogo da respirare più che da visitare. Una collina apparentemente uguale a tante altre lungo la valle del fiume Boyne, l’unica differenza è una serie di morbidi avvallamenti circolari, quello che resta della mitica Tara dove regnavano gli Árd Rí na hÉireann, gli Alti Re a cui i capi dei clan giuravano obbedienza, mentre proseguivano imperterriti le loro faide infinite.
All’interno del Ràth na Riogh, il Recinto Reale sulla collina più alta, si alza ancora la pietra fallica del Lia Fáil, la Pietra del Destino che ogni nuovo re doveva sfiorare con il suo carro lanciato a tutta velocità, facendole lanciare un triplice ruggito che sarebbe risuonato in tutta l’isola. A Tara, San Patrizio nel quinto secolo sfidò il potere reale accendendo un fuoco sulla vicina collina di Sleane, finendo per convertire al cristianesimo l’Alto Re Laoghaire, e da qui inizia anche l’Inseguimento di Diarmuid e Grainne. Un poema epico che racconta l’amore proibito tra Grainne, figlia di re Cormac, e il guerriero Diarmuid con un’inevitabile tragica fine, perché l’epica non prevedeva quasi mai un Happy End, la morte dell’amato nella Grotta di Grainne.
Un luogo oscuro che la tradizione identifica con il gigantesco tumulo di Newgrange nel cuore di Bru Na Bòynne, un vasto sito neolitico Patrimonio dell’Umanità UNESCO che guarda dall’alto dei suoi cinquemila anni persino le piramidi d’Egitto. Forse era un luogo sacro, forse un calendario astronomico come testimonierebbe il raggio di sole che a ogni solstizio d’inverno scivola per pochi minuti fino alla camera interna, uno spettacolo per i pochi fortunati che vincono un’apposita lotteria, sperando che quel giorno una nuvola non oscuri il sole.
Non lontano, un mare di colline ondulate nasconde un altro calendario neolitico, Loughcrew Hills, dove basta arrampicarsi sul panettone d’erba e di pietre del Cairn T e strisciare nel buio di un angusto corridoio fino a una camera centrale dove solo la luce di una torcia rivela cerchi, soli e spirali. Arcaici simboli sostituiti nel sesto secolo dalle torri rotonde, aguzze come punte di frecce, di un cristianesimo in salsa celtica che aveva fatto dell’«Isola dei santi e dei sapienti» il cuore culturale e spirituale di un’Europa di monasteri.
Uno dei più famosi si specchia tra le anse del fiume Shannon, è il potente monastero di Clonmacnoise fondato nel 545 da Saint Ciaràn dove si ritrovavano sapienti, monaci e pellegrini di tutto il mondo cristiano, poi i vichinghi, e la «normalizzazione» di Roma di una chiesa orgogliosa della propria autonomia, lo hanno ridotto a una malinconica geografia di chiese in rovina, torri rotonde e grandi croci scolpite.
Monoliti di arenaria alti fino a quattro metri affollati di suonatori e guerrieri, testimonianze di un mondo celtico-gaelico sopravvissuto più a lungo a sud di Galway dove il vento scaglia le onde dell’Atlantico contro gli strapiombi delle scogliere di Mohair, l’ultimo confine del Burren. Un paesaggio lunare dove il dolmen di Poulnabrone sembra un’astronave di pietra puntata verso il cielo e i monasteri raccontano storie e leggende di santi famosi come rockstar.
Da San Fachtna, cui è dedicata la minuscola cattedrale in rovina di Kilfenora, a San Colmano fondatore di Kilmacduagh con la sua torre rotonda sbilanciata in una spericolata imitazione celtica della Torre di Pisa. San Tolla, patrono del mal di denti, ha invece fondato Dysert O’Dea perso lungo una romantica stradina che attraversa un bosco.
L’estremo occidente di questo mondo celtico, e dell’Irlanda, è un dito di pietra lungo una cinquantina di chilometri conficcato nell’Atlantico che precipita nel mare spumeggiante di Slea Head sulla penisola di Dingle. «La prossima parrocchia è Brooklin» dicono i pochissimi abitanti di Dún Chaoi, un pugno di case nel cuore di uno degli ultimi gaeltacht, i fazzoletti di terra dove gli anziani parlano ancora gaelico.
Decisamente più difficile ritrovare i celti in quello che il Merlino disneyano avrebbe probabilmente definito un «guazzabuglio globale», la Dingle turistica dove il proprietario americano di una guesthouse chiede compulsivamente se sei happy, il cameriere dall’inglese oxfordiano è bulgaro e giù al porto i pescherecci francesi hanno equipaggi magrebini. Eppure questa penisola aspra e sottile conta oltre duemila siti archeologici, chiese paleocristiane come l’oratorio di Gallarus con il suo profilo a forma di carena di barca rovesciata, l’unico modello d’ispirazione per i pescatori locali, o una rara pietra ogham della chiesa di Kilmalkedar che testimonia l’inizio della letteratura irlandese con le sue incisioni utilizzate per trascrivere l’antica tradizione orale.
«È piuttosto complicato definire i celti – conferma Isabel Bennett, curatrice del West Kerry Museum di Ballyferriter – In realtà sono un contenitore in cui ognuno può inserire quello che vuole perché in Irlanda hanno lasciato un’impressionante quantità di manufatti e gioielli ma, archeologicamente parlando, il periodo celtico è uno dei meno tangibili. Abbiamo trovato tombe e molti forti, che però risalgono all’Età del Bronzo e sono stati probabilmente riutilizzati dai celti, quello che ha resistito fino ai nostri giorni è la lingua gaelica, e un ricco patrimonio di tradizioni e toponimi geografici». L’universo celtico è sfuggente come una di quelle spirali che piacevano tanto a questo popolo di principi e druidi, impastato di terra, nuvole e maree che raccontano storie incerte tra la penombra del mito e la storia.

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