Reportage - Nella terra di Giudea: dal mar Morto a Gerusalemme
Che i monaci ortodossi di Mar Saba vivessero in uno spazio siderale molto lontano, lo aveva già capito alla fine della guerra dei Sei Giorni un ufficiale di Tsahal, l’esercito israeliano, quando aveva bussato al robusto portone del monastero per annunciare che l’area non era più sotto controllo giordano.
Scoprì che i monaci ignoravano olimpicamente l’esistenza della suddetta guerra perché, sì, avevano sentito degli spari e visto divise diverse ma, come gli avevano fatto chiaramente capire, si trattava di miserabili beghe tra comuni mortali lontane dalle loro celestiali certezze. A proteggerli bastavano le loro icone e il canyon cui il monastero è letteralmente appeso, a picco sul rivolo d’acqua del biblico fiume Kidron che da Gerusalemme tenta disperatamente di arrivare al Mar Morto, ventiquattro chilometri e quasi 1500 metri più in basso attraversando un deserto pieno di storie, il più piccolo del mondo ma tosto come i suoi fratelli maggiori «perché i deserti sono potenti» dicono spesso quelli che li abitano.
Piste che svaniscono nel nulla attraversano il cuore del deserto dove l’unico colore è l’azzurro delle cupole di una moschea
Per capire il deserto di Giudea bisogna aspettare che i primi raggi di sole facciano rattrappire le ombre dei pinnacoli di roccia svelando una montagna di sale minerale lunga due chilometri e profonda quattro che si muove di un centimetro l’anno. L’equivalente di una miniera d’oro che i romani sfruttavano già duemila anni orsono ai piedi del biblico monte Sodom, dove Dio decise di dare una regolata alle promiscuità sessuali in voga tra i locali.
Dalla cima la vista scivola fino alle scacchiere delle grandi saline che dividono il Mar Morto, 412 metri sotto il livello del mare, il punto più basso della Terra diviso tra Israele e Giordania. Lo avevano battezzato così i primi monaci cristiani stupiti dall’apparente assenza di ogni forma di vita, anche se recentemente nelle sue acque sono stati scoperti diversi batteri, ma il nome giusto è Yam Ha-Melah, Mare di Sale in ebraico, visto che qui l’acqua ha una concentrazione salina otto volte più alta dell’oceano, così densa da impedire ai pesci di nuotare.
Le scenografiche concrezioni saline ci sono ancora ma la mancanza di pioggia e soprattutto l’inarrestabile bisogno d’acqua dolce di Israele e Giordania stanno contraendo il bacino settentrionale, ormai separato da una striscia di sabbia da quello meridionale.
Apparentemente inattaccabile da qualsiasi disastro ecologico, un gigantesco e solitario cilindro di roccia è l’indiscusso protagonista di una storia del I secolo, dimenticata fino al 1923. Il Tempio di Gerusalemme era già stato distrutto ma in questa fortezza resistevano ancora un migliaio di uomini, donne e bambini. Tuttavia i ribelli zeloti non avevano fatto i conti con gli ingegneri romani che dopo cinque mesi di assedio avevano costruito una gigantesca rampa di pietra lungo il fianco della montagna.
Quando i difensori si resero conto che la fine era vicina decisero di morire piuttosto che cadere in schiavitù e, per non violare la legge ebraica che proibisce il suicidio, dieci di loro vennero sorteggiati per uccidere gli altri, nove vennero uccisi dall’ultimo sopravvissuto che si buttò sulla sua spada, e il mattino dopo i romani trovarono solo un silenzio di morte, due donne e cinque bambini.
«Masada non cadrà più» giurano ogni anno molte reclute dell’esercito sul sito più sacro di Israele, anche se per gli storici rimane qualche dubbio su uno dei miti fondanti del paese. Com’è possibile che non sia stata trovata traccia delle ossa di un migliaio di persone? A Masada nessuno può dimostrare niente ma rimane il pathos di un luogo che con poche pietre evoca una tragedia, i campi fortificati romani ancora intatti e protetti dall’UNESCO come Patrimonio dell’Umanità, le storie che riemergono da corazze, punte di frecce, persino ricevute degli stipendi dei soldati della X Legio.
La Bibbia non è mai troppo lontana in questi canyon intatti dall’alba del mondo dove il giovane David si nascose a re Saul vicino alle cascate di Ein Gedi o Qumran, e nel secondo secolo avanti Cristo una comunità di Esseni trovò rifugio dalle tentazioni della Gerusalemme ebraica, ma anche loro furono spazzati via dai romani nel 70 d.C. e su queste montagne color ocra scese il silenzio fino al 1947, quando un giovane beduino in cerca di una capra smarrita trovò degli antichi rotoli nascosti in una caverna. Li portò a un calzolaio di Betlemme per scambiarli con dei sandali nuovi, e di mano in mano sette metri del Libro di Isaiah si trasformarono nei famosi Rotoli del Mar Morto, frammenti fondamentali della storia del popolo di Israele.
Piste che spesso svaniscono nel nulla attraversano il cuore del deserto dove l’unico colore è l’azzurro delle cupole della moschea di Nebi Musa, un caravanserraglio circondato dalle lapidi sghembe di un vecchio cimitero dove i devoti mussulmani sono venuti per secoli in pellegrinaggio per guardare da lontano la tomba di Mosè sul monte Nebo oltre il Giordano, poi qualcuno deve aver deciso che era più semplice dire che il cenotafio di Mosè era proprio lì.
Più avanti un pianoro finisce senza preavviso di fronte al convento ortodosso di Mar Saba, vicinissimo ma quasi irraggiungibile oltre uno strapiombo degno degli Inferni minacciati da un giovane pope che presidia la porta dividendo a colpo sicuro pecorelle devote da eretici incalliti. Categoria in cui vengo immediatamente classificato, «oggi è un giorno sacro» tuona «possono entrare solo gli ortodossi». E solo maschi, come testimoniano le pellegrine greche ammassate contro il muro di cinta che mi guardano con la segreta soddisfazione di vedermi accomunato a loro.
Il deserto finisce davanti a un cono perfetto, una montagna costruita dall’uomo e incoronata da una fortezza che domina la Giudea fino al Mar Morto costruita da Erode il Grande, giustamente scettico sulla propria popolarità tra i sudditi. L’amava tanto da averla chiamata Herodion in onore di se stesso, e vi si era fatto seppellire con la corona d’oro in testa e lo scettro in mano in una tomba riscoperta solo nel 2007.
Alle porte di Gerusalemme una piccola entrata rivela la machiavellica astuzia dei cristiani per impedire ai musulmani di entrare a cavallo nella chiesa della Natività di Betlemme, assolutamente inefficace però contro le infinite risse tra monaci delle varie confessioni alla perenne conquista di qualche metro strategico nella più venerata chiesa della Cristianità.
Un piccolo anticipo della Calamita del Mondo, il chilometro quadrato della Città Vecchia di Gerusalemme dove nessuno, ebreo, cristiano o musulmano rinuncerebbe mai alla sua porzione di pietre sacre. Tutti in cerca del loro assoluto perché di Gerusalemme ne esistono tante e ognuno deve cercare la sua.