Gli isolati

Avete presente Kakan? Nonostante il nome vagamente orientale, questo lembo di terra lungo sei chilometri, che emerge dalle onde dalle parti di Sebenico, in Croazia, è una delle isole deserte dell’Adriatico più affascinanti e a portata di mano. A Kakan non sostano battelli di linea, non c’è acqua potabile. Si arriva con una piccola barca o una canoa; non ci sono approdi, lo scafo va issato faticosamente a riva.
Avanzo in un labirinto di interminabili muretti, oliveti trascurati invasi da liane, spiaggette strette e scomode (ma con acque limpidissime). L’accampamento è di fortuna, ma in cambio di un giaciglio scomodo posso ammirare un meraviglioso cielo pieno di stelle, come se fossi su una nave di roccia immobile.
Durante questa notte indimenticabile nasce un progetto: vagabondare tra le isole perdute dell’Adriatico e collegarle tra loro con un viaggio inconsueto. Un filo d’Arianna in realtà c’è già, anche se da tempo dimenticato. È una rotta antica tra il Gargano e la Dalmazia meridionale, percorsa dai navigatori preistorici che lasciarono dietro di sé, come briciole di Pollicino, minuscole selci lavorate. Queste isolette lontane dalla costa erano tappe strategiche per attraversare l’Adriatico con barche primitive, navigando a vista.
Uno di questi micromondi è in alto mare, tra Italia e Croazia, quasi a far da boa di mezza via: è Palagruža, da lontano una rupe triangolare che buca l’orizzonte. Il nome italiano del luogo, bellissimo, è invece Pelagosa. Fino alla Seconda guerra mondiale era un lembo dimenticato di territorio italiano, oggi è croato. È un grande scoglio frequentato solo dai pescatori e dai guardiani del faro monumentale, costruito dal governo austroungarico nel 1875. Sbarcare però non è facile, battuto com’è da onde e correnti. C’è solo un buon punto, la valle del Papa, dove in effetti sbarcò papa Alessandro III nel marzo del 1177.
In quegli anni Pelagosa era raggiunta da lance di legno con vela latina che partivano da Lissa. Seguendo la stessa rotta all’indietro, s’impara a destreggiarsi in un labirinto di secche, stretti, punte, scogli minuscoli ma micidiali per uno scafo. Chi si avvicina alla Dalmazia da ovest in una giornata di bel tempo vede infatti una serie di dorsi di dinosauro spuntare dal mare, una cordigliera andina semisommersa.
Le isole sarebbero oltre 1200, ma sul numero preciso non tutti sono d’accordo (secondo uno studio dell’economista sloveno Franček Drenovec sarebbero esattamente 1233).
Quella sulla nostra rotta, molto amata dai navigatori di un tempo, è Biševo, l’isola satellite di Vis, lunga sei chilometri. È l’isola abitata più remota della Croazia. L’unica scuola ha chiuso nel 1961. Non ci sono strade, non c’è un bar né la corrente elettrica. Biševo apre un ventaglio di punte rocciose e baie dai chiari fondali sabbiosi; la più bella è Salbunara, dove ancora qualcuno pesca, cura minuscoli vigneti e si occupa di interminabili riparazioni a barche di legno.
Gli abitanti stabili sono solo cinque. Parlo con Klara, austriaca, che vive qui sei mesi l’anno. Mi accoglie gentilmente e mi prepara un caffè, raccontando com’è strano passare dalla sua casa sui monti Tauri a un posto dove d’inverno si resta senza collegamenti per lunghi periodi (e quindi, rifletto tra me, c’è qualcosa in comune tra le due situazioni). Chiedo alla ragazza – occhi color di cielo e lunga treccia – se questa si può definire un’isola deserta, ma lei sorride e dice che il deserto è ben altro, indicando un cono all’orizzonte, azzurrino per la distanza: è Sveti Andrjia, ma anche qui è meglio il nome italiano, Sant’Andrea in Pelago.
Per raggiungerla bisogna attraversare un settore di mare aperto, agitato; niente gommone, qui ci vuole una barca vera. Sant’Andrea è diversa dalle altre isole; è coperta di boschi e sfoggia, se non proprio un monte, un rilievo che supera i trecento metri di altezza. Una chiesa solitaria, abbarbicata in alto, testimonia che qui un tempo abitava una piccola comunità. Nella macchia spuntano anche le rovine di una fortezza bizantina e le pietre di un monastero medievale. Piantata in mezzo alle correnti adriatiche, Sant’Andrea ha acque trasparenti e un impressionante corredo di leggende: si avvertono antiche presenze. Le sue coste sono traforate da un dedalo di grotte, dove ogni tanto qualche sub avvista la rarissima foca monaca.
Spostandosi lentamente verso sud est, seguendo l’antica rotta verso Dubrovnik, il successivo passo è Lastovo (Lagosta per gli italiani). Questa volta è un’isola grande, quarantasei chilometri quadrati, in posizione strategica, al centro di un arcipelago di quasi cinquanta terre emerse, tra scogli e isolotti, tutti disabitati. Fino al 1998 Lastovo era zona militare interdetta ai visitatori e ancora ne porta i segni, tra gli edifici diroccati della triste edilizia socialista e tracce di opere belliche.
All’interno si può camminare per giorni (ci sono ben duecento chilometri di sentieri) attraverso lembi di fitta foresta, alternati a terreni aridi da capre, fichi testardi e qualche coraggiosa coltivazione. La costa sud offre baie segrete dove ci si può isolare lontano da tutti. In agosto s’incontrano gli ultimi hippy d’Europa, che vivono di poco o nulla e dormono in amaca. A punta Struga si erge sul mare un altro dei maestosi fari austroungarici.
Sul sentiero incontro una famiglia di francesi che si è allontanata dal mondo per qualche settimana affittando le stanze dei guardiani. Poche comodità, nessuno svago se non una vecchia radio, e interminabili partite a scacchi. Ogni tanto vanno a fare la spesa nell’unico paese (quasi trenta chilometri, tra andare e tornare) e trasportano a piedi lassù i viveri, ma i tramonti sul mare che si vedono dal faro, dicono, a Lione se li sognano.
​Ultima notte del viaggio a Prežba, isoletta disabitata dell’arcipelago di Lastovo, un angolo di solitudine marina che ricorda i Caraibi. Nuotando con maschera e pinne vado a esplorare i tunnel inventati dall’esercito di Tito per nascondere le navi da guerra. Si dorme in spiaggia, tra relitti portati dal mare, come a Kakan, dove tutto è cominciato.

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