Le isole fortunate

Antonio vive qui da tanto. Dai tempi dell’università, quando faceva ricerche per la sua tesi di laurea. C’è venuto in barca a vela, con un gruppo d’amici diretti ai Caraibi, salpando proprio dalla Doca de Belém, il porticciolo turistico del quartiere lisbonese da cui prendevano il largo i navigatori che nel XV secolo hanno cambiato il mondo. Voleva sentirsi un po’ nei loro panni, giungere all’isola dal mare.
«Non erano molto più grandi della nostra le barche che ci hanno fatto arrivare fino qui, e poi fino in America, fino in capo al mondo. Le abbiamo inventate noi portoghesi, nel Quattrocento. Dovete ringraziarci se il pianeta è tornato a essere uno, se i continenti si sono ritrovati» mi dice allegro e trasognato guardando avanti a sé, in un copione che pare ripetere spesso.
Sono due mattine che ci troviamo lì, al sole fresco di novembre, seduti su quella panchina del porto di Funchal, la capitale dell’isola di Madeira, al largo della costa Nord-occidentale dell’Africa, a osservare questo mare cangiante e quel cielo azzurro che paiono ancora caldi anche in pieno autunno. E, quanto a me, a fantasticare su quella caravella ormeggiata lì, a far da contrasto con uno yacht ultramoderno. Santa Maria de Colombo, dice il nome sulla prua. È una copia assai fedele: piccola e compatta, venticinque metri per sette, e tre alberi con le vele crociate col simbolo rosso dell’Ordine di Cristo. Un paio di volte al giorno porta a spasso turisti che hanno voglia di sentirsi come quegli antichi eroi dei mari.
Antonio la sua tesi sulla Madeira antica l’ha finita quasi trent’anni fa, ma da qua non se n’è più andato. È stato un ritorno, dice lui. Secondo i racconti di famiglia i suoi avi s’erano trasferiti qui nel Cinquecento, da un villaggio povero del Minho, nel nord del Portogallo, la regione che ha fornito la maggior parte dei coloni all’arcipelago. Poi però cent’anni or sono il bisnonno era tornato in continente. Perché la prosperità del grano, della canna da zucchero, del pregiato Madeira (un vino simile al Porto e al Marsala) e poi del turismo aveva lasciato il posto a una crisi nera, alleviata solo un poco dal denaro portato dai frequenti, facoltosi visitatori (nobili europei, inglesi, tedeschi…) in cerca di cure termali, clima salubre e quiete. Ci aveva fatto scalo persino Napoleone nel 1815, sulla via del suo esilio a Sant’Elena.
«Le chiacchiere di famiglia sull’isola, sulla sua vegetazione subtropicale, le scogliere di vento a picco sull’oceano, le valli profonde che incidono scoscese i monti fino al mare, mi hanno segnato fin dall’infanzia» confessa. E così, sulle ali delle sue parole, scopro che Madeira fu la prima conquista portoghese sulla via delle Indie, nel 1419. Merito della voglia d’oceano dell’Infante Dom Henrique, Enrico il Navigatore, figlio del re e massimo fautore della politica d’espansione marittima del Portogallo.
I primi colonizzatori approdarono dove ora sorge Machico, in una baia protetta dell’est. Madeira divenne così subito testa di ponte e punto di approvvigionamento per le navi alla ricerca del capo di Buona speranza e poi dell’India. Un crocevia lungo la rotta delle spezie e poi d’America. Dicono che anche Colombo ci abbia abitato, sull’isola di Porto Santo, a un paio d’ore di traghetto da Funchal, dove avrebbe perfezionato la sua idea di cavalcare gli alisei. Dicerie, forse, ma è un fatto che sua moglie Felipa Moniz era figlia di Bartolomeu Perestrello, governatore dell’isola nonché uno dei suoi scopritori. Per inciso, a Porto Santo c’è una casa-museo del genovese. «É toda ela um jardín e tudo o que nela se aproveita é ouro»: «È un immenso giardino e tutto quel che vi si ricava è oro». Così Gaspar Frutuoso, storico cinquecentesco portoghese, definisce l’isola di Madeira del tempo suo.
Meno noto dei suoi illustri vicini atlantici − Capo verde, Canarie, Azzorre − l’arcipelago di Madeira è regione autonoma dal 1976, con la fine della dittatura di Salazar; comprende anche la minuscola e brulla Porto Santo, e un altro paio di gruppi di isolotti disabitati, le Desertas e le Selvagens, rotta alle Canarie.
Tre volte la superficie dell’isola d’Elba, Madeira significa «legname», quella che fu la sua prima risorsa, prosciugata subito fin quasi all’esaurimento per farci navi e case; e per far posto ai coltivi, ricavati a forza di zappa e denti stretti sulle terrazze scavate sui ripidi pendii dei monti. Sì, perché Madeira è un’isola vulcanica senza un vulcano ma piena di strapiombi, con poche spiaggette e approdi, e quasi priva di pianure. Non vi scorrono fiumi, ma solo ribeiras, torrenti stagionali, e per portare l’acqua alle colture i padri han congegnato centinaia di chilometri di canali e canaletti, i preziosi acquedotti detti levadas.
Passeggiando per le viuzze acciottolate della Funchal antica, dietro il famoso mercato dei Lavradores (gli agricoltori), la sera bisogna far gimcana tra i tavolini dei ristoranti, fitti fitti. L’atmosfera è rilassata e i turisti, per via della sua eterna primavera, ci vengono quasi tutto l’anno. Sui piatti spesso s’allunga un trancio di pesce espada, una sorta di anguillona, specialità locale accompagnata da un contorno di banane fritte, un sapore che richiama il tropico d’America.
I murales sono numerosi, i balconi e le case sbuffano buganvillee di mille colori. Come mille sono le altre specie vegetali, importate da ogni dove per rimpinguare la flora insulare spogliata delle sue specie autoctone all’inizio della colonia. Solo sull’alta serra, che taglia da ovest a est l’isola, esistono ancora scampoli di laurisilva, la foresta sempreverde di lauracee che un tempo copriva gran parte del bacino del Mediterraneo e che ora è tanto rara da esser diventata patrimonio dell’umanità Unesco.
Affacciato sugli spalti del forte cinquecentesco di São Tiago, ora ristorante di livello, pirati non se ne vedon più, né navigatori. Ma a guardar bene, con gli occhi della suggestione, allora sì, vedi le flotte con le vele spiegate, il vento che gonfia le croci. Son tredici navi dirette al Brasile. Ci portan l’Europa, si prenderanno l’America.

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