Per la prima volta in oltre 30 anni di attività, i protagonisti di una mostra alla Cons Arc di Chiasso sono esclusivamente gli animali: quadrupedi, volatili e fiere africane. Il merito è di Alberto Bernardoni, fotografo quasi per caso, come spiega lui stesso: «Ero in rotta con mio padre, e al termine dell’ennesima lite gli urlai “scappo a Timbuctu!”. È probabile che all’epoca manco sapevo dove fosse Timbuctu…».
Se la passione per l’Africa scaturì da quella estemporanea invettiva contro il suo babbo, quella per la fotografia si deve molto probabilmente a Sulla fotografia, il saggio di Susan Sontag apparso nel 1977 e che nei decenni si è rivelato imprescindibile per gli amanti di quest’Arte, tanto da competere con l’immancabile Camera chiara (Roland Barthes, 1980) tra i testi fondamentali nell’indagine sul rapporto tra realtà e immagine, comunicazione e rappresentazione fotografica.
Anni prima d’imbattersi nella Sontag, tuttavia, Bernardoni (classe 1941) aveva già affrontato il suo primo periplo africano: è il 1969 quando parte da Lugano in compagnia del campione di rally Bruno Martignoni (due volte primo nel massacrante Algeri-Città del Capo). Al termine di quel raid, Bernardoni è vittima del proverbiale Mal d’Africa, cui cerca di porre rimedio con una serie di altri viaggi che lo portano dall’Egitto e il suo Nilo fino al Mozambico – ancora alle prese con la guerra civile – e all’Uganda che si è appena messa alle spalle quella (feroce) caricatura d’un Idi Amin Dada, passando dal Ruanda sull’orlo del baratro. Diventa amico di Kenneth Kaunda, primo presidente dello Zambia, e del fotografo statunitense Peter Beard, il quale lo illumina con un pensiero ancora oggi caro a Bernardoni: «Laggiù non capita nulla fuori dall’ordinario, è semplicemente l’Africa!»
È però stra-ordinario l’approccio del fotografo luganese con la fauna della savana africana: poco amante degli obiettivi a lunga gittata, riesce ad avvicinarsi così tanto a bestie feroci (leonesse&leoni) da strappar loro degli incredibili quanto ammalianti camera look. «Occorre molta pazienza – spiega ancora Bernardoni – e sapere da che parte spirano le brezze per avvicinarsi all’animale, che non deve percepire l’odore dell’umano, seppur armato solo di un apparecchio fotografico e non certo d’un fucile». Pazienza, certo; ma occorre anche un bel talento – e un po’ di fortuna! – per cogliere una leonessa appena destatasi e con gli occhi ancora cisposi. Oppure un elefante che, barrendo, sbadiglia fiero delle sue zanne non ancora fatte preda dai bracconieri; per non dire della lince che, fissando il fotografo prossimo allo scatto, sembra chiedersi «Ma che vuole questo da me?». O ancora un macaco che, la mano sul viso pensoso, a sua volta sembra domandarsi se Darwin avesse davvero ragione…
Bernardoni spazia dalle mere immagini naturalistiche a quelle poeticamente sfuocate di giraffe felici di galoppare nella savana o gazzelle in volo. «Non potevo avvicinarmi di più – spiega in quest’ultimo caso – perché tra noi c’era uno stagno, anzi un pantano impraticabile, ma i miei click non hanno disturbato il loro volo!», commenta per sottolineare pleonasticamente il rispetto che sempre nutre verso i suoi soggetti fauneschi. Coglie uno zebù nella sua corsa sfrenata che, a dispetto della specie differente, potrebbe figurare nelle creazioni che Picasso ha dedicato alla tauromachìa. «L’animale come teofania», ha scritto lo psicanalista junghiano James Hillman, aggiungendo poi «il racconto come mistero». Ci sembra il miglior viatico per lo spettatore che vorrà visitare l’esposizione alla Galleria chiassese.