Se c’è un dato scientifico che anche i profani e le profane della medicina conoscono e accettano è che del funzionamento del cervello si sa ben poco. Di conseguenza, è molto difficile stabilire le cause specifiche dell’insorgere di una malattia mentale, senza considerare poi lo stigma che tuttora affligge coloro che soffrono di disturbi psichici. Operatori e cose. Confessioni di una schizofrenica edito da Adelphi offre la possibilità unica di compiere un viaggio all’interno di una mente. Barbara O’Brien è lo pseudonimo utilizzato dall’autrice per scrivere questo testo stupefacente, nel 1958, a seguito della sua guarigione dalla schizofrenia.
La giovane donna, il giorno in cui ha visto comparire per la prima volta Burt, Nicky e Hinton, cioè le sue allucinazioni, era nel pieno della sua carriera in una grande azienda statunitense. Da tempo, la sua maggiore difficoltà consisteva nell’evitare le strategie dei colleghi, che nel testo vengono definiti «operatori dell’uncino»: coloro che trascorrevano il loro tempo a ordire strategie per far cadere le teste dei loro superiori e prenderne il posto.
Da quella mattina in cui svegliandosi ha sentito le voci per la prima volta, per sei mesi ininterrottamente, Barbara O’Brien ha attraversato gli Stati Uniti, in lungo e in largo su una stessa linea di autobus, seguendo le indicazioni delle sue voci, per sfuggire ai pericoli che queste paventavano. Infatti, la fantasia psicotica della donna prevedeva l’esistenza di «operatori», definiti così in un’appendice posta alla fine del testo: «essere umano dotato di una conformazione cerebrale che gli permette di esplorare e influenzare la mente altrui» e di «Cose»: «essere umano sprovvisto dell’attrezzatura mentale degli Operatori». Barbara era una Cosa, ovviamente, mentre gli uomini e le donne che esistevano solo nella sua mente erano per la maggior parte «operatori», che la indirizzavano o le davano la caccia.
Una volta guarita da sola, Barbara si è resa conto, grazie a una capacità analitica e una lucidità fenomenali, che le parti del suo sé si erano manifestate sotto forma di presenze estranee, di voci e allucinazioni, come estremo sintomo di una sofferenza psicologica, della quale in qualche modo erano state anche la soluzione.
Non c’è, sia ben chiaro, un solo passaggio in cui l’autrice definisca la schizofrenia come null’altro se non una grave malattia mentale: questo non è un testo new age o che proponga prospettive misticheggianti. Sarebbe invece più adeguato definirlo una sorta di diario di guerra. Verso la fine dell’episodio schizofrenico, la donna, seguendo il suggerimento di uno degli «operatori» che le parlavano nella testa, aveva contattato uno psicanalista, che aveva compreso le possibilità di guarigione e aveva evitato di farla internare.
Il racconto del rinsavimento e le immagini che O’Brien utilizza per descrivere la ripresa del funzionamento «regolare» della sua psiche sono di una chiarezza strabiliante. O’Brien definisce la mente conscia durante l’episodio schizofrenico come: «unico spettatore in tutto il teatro, costretta ad assistere senza poter lasciare la sala» al dramma che l’inconscio mette in scena, quando «si ribella, assume il controllo, crea la persona che desidera essere, rinchiude il controllore conscio in uno spazio angusto, […] e infine gli ruba la scena».
Alla scomparsa delle allucinazioni la mente conscia diventa «una spiaggia deserta», in cui per vari giorni non avviene assolutamente nulla, mentre poi col passare del tempo insorgono dei pensieri: «le onde». Davvero sorprendente è anche la descrizione di «Qualcosa», il nome che O’Brien attribuisce al proprio inconscio quando, una volta tornata in sé, assume il ruolo di una guida veggente, in attesa che la parte conscia riprenda definitivamente il controllo.
Nel 1957 negli Stati Uniti ad ammalarsi di schizofrenia era un individuo su 12 e tali cifre sono aumentate fino a che non sono stati trovati dei rimedi farmacologici, che hanno permesso di evitare l’internamento. Questo testo ha il merito indiscusso di riportare la malattia psichica a una dimensione di comprensibilità, dimostrando come una struttura mentale «normale», se sottoposta a uno stress inadeguato, può reagire con l’autoisolamento. O sarebbe meglio dire che, in determinate condizioni, può capitare che l’inconscio metta in atto una vera e propria presa della Bastiglia.
Con la sua testimonianza, Barbara O’Brien permette l’esperienza unica di vedere vivisezionato il funzionamento di una mente. Lo fa non dal punto di vista di uno scienziato, le cui parole risulterebbero probabilmente di difficile comprensione per i non addetti ai lavori, ma da quello di un’impiegata, particolarmente dotata e ligia al dovere, che ha visto il proprio sé ribellarsi, auto-sabotarsi e infine trovare la strada, per un’esistenza più adeguata a sé stessa e ai suoi limiti.