Un mondo fatto di luce

Il bello di un’esposizione, oltre che allietare il visitatore, è che dovrebbe arricchirlo nelle sue conoscenze, aprirgli la mente verso nuovi orizzonti e indurlo a porsi qualche domanda sulla propria condizione. Prendiamo il caso della mostra alla Fondazione Baur di Ginevra (istituzione dedita alle culture dell’Estremo Oriente), intitolata Elogio della luce: qualche reperto della tradizione giapponese pescato nelle proprie collezioni quale prezioso supporto per la luce, accanto alle opere di due artisti moderni, Pierre Soulages e Tanabe Chikuunsai IV. Sicuramente a noi più noto il primo, protagonista tra l’altro di una grande retrospettiva alla Fondazione Gianadda nel 2018, che non il secondo. E qui iniziano le scoperte.
Soulages è stato definito come colui che nelle sue tele, «permette al nero di uscire dall’ombra per entrare in un mondo di luce», mettendo così in discussione alcune nostre certezze. È capitato anche a me quando mi sono trovato per la prima volta di persona davanti alle sue opere. Lo stesso autore parla di uno «spazio di meditazione» nel quale gioca un ruolo importante tanto chi guarda quanto chi ha tracciato i segni sulla tela. Il colore nero prende vita e sembra fondersi con la luce, trasportandoci verso un orizzonte spirituale. Un paradosso che fa riflettere e che ci riporta all’Oriente.
Parlando di Giappone, viene subito in mente il capolavoro di Jun’ichirõ Tanizaki, nell’originale Elogio dell’ombra, poi pubblicato in italiano con il titolo Libro d’ombra. Un trattato sulla cultura del Paese del Sol Levante messo a confronto con l’Occidente, ma anche sulla convivenza naturale tra luce e buio, con considerazioni sull’armonia che dovrebbe stare alla base della nostra quotidianità: architettura e mobili, sistemi di riscaldamento e di illuminazione, gabinetti e ristoranti, stoviglie, ricette di cucina e generi teatrali…. Il gabinetto ideale? «Sono necessari: una lieve penombra, nessuna fulgidezza, la pulizia più accurata, e un silenzio così profondo che sia possibile udire lontano un volo di zanzare», dice Tanizaki.
Coprotagonista della mostra alla Fondazione Baur è un illustre artista che lavora il bambù, creando volumi e spazi intriganti: Tanabe Chikuunsai IV, dove il numero 4 sta a indicare la quarta generazione della sua famiglia dedita a un’arte che non potrebbe che essere figlia dell’Oriente. Intrecci di sottili strisce di bambù tagliate a mano e lavorate con maestria che creano spazi di luce-ombra ed effetti ottici che ci riportano al tema della meditazione e agli intrecci che caratterizzano il mondo nonché la vita di ciascuno.
Un artista che lavora una materia nobile e umile al tempo stesso, molto amata anche per le cerimonie del tè al tempo dei samurai; e che si riallaccia a una tradizione secolare, se è vero che un capolavoro letterario del X secolo, di autore ignoto, è il Taketori monogatari, tradotto in italiano con Storia di un tagliabambù. Vi si narra di un anziano taglialegna che adotta una misteriosa creaturina alta tre pollici trovata all’interno di un bambù, la principessa Kaguyahime, che alla fine della storia tornerà sulla Luna da dove proveniva e della quale rimane solo «quel fumo che ancora oggi sale alle nuvole dal monte Fuji, il più vicino al cielo».
Una mostra che da una parte soddisfa dunque lo spirito, dall’altra apre uno squarcio di luce sui collegamenti tra culture apparentemente lontane tra di loro, ma che sanno dialogare e trovare punti in comune quando la mente e il cuore si muovono nella stessa direzione.

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