Tra le cose buone viste (penso anche al bel colloquio con Luciano Canfora, in Quante storie Rai3 del 28 settembre, appena replicato), parliamo di qualcosa di vecchio, addirittura di antico, ma che sembra sempre fresco come un ovetto di giornata; quindi merita che se ne parli ogni tanto, una specie di atto piacevolmente dovuto, e che lo si riveli a qualche giovane utente, o lo si rammemori a qualche distratto.
Sto parlando di Blob, che dal 1989 produce ogni giorno editoriali in immagine su eventi di attualità, con una puntualità e una adeguatezza che sorprendono sempre; un programma assai paradossale, che replica apparentemente la modalità un po’ isterica e volubile della fruizione televisiva dopo l’odiosamata invenzione del telecomando. Paradossale perché nel rincorrersi di spunti da fonti diverse, sovrapposte e a prima vista disorganizzate, costruisce una drammaturgia unitaria per il tramite dell’immagine e offre chiavi di lettura «politica» del reale, e quindi stimoli per una riflessione di respiro ben più ampio. Con qualche perla che allude alla patologica genialità dei curatori che si alternano al montaggio, curatori che intuiamo vagamente monomaniaci consumatori – e organizzatori intelligenti ed enciclopedici – di materiali visivi; i rinvii sono sempre precisi, puntuali, spesso poetici ed emotivamente coinvolgenti (penso alle immagini della tragedia dei migranti o, si parva licet, al «Tutu» di Miles Davis regalatoci qualche settimana fa alla memoria del grande statista scomparso).
Insomma, un cacofonico porto di quiete e spazio di riflessione costruito nell’accumulo e nella giustapposizione non casuale di stimoli visuali e auditivi diversi; che ci dice, con una sua forza tranquilla, come sia possibile anche in questi tempi un po’ stupidi e ciechi essere resilienti, essere seri e attenti, prendersi il tempo per cavalcare l’onda senza farsi sommergere, anzi trovando in essa la forza di resistere e di affermare il tempo antico, lento e giusto del pensiero. La proposta ha una evidente, onesta e conclamata, impronta «ideologica», ma va bene così; meglio di certo un programma che ci interroga offrendosi senza infingimenti né conclamata (e disattesa) obiettività, per farsi un’opinione propria nel confronto e nella dialettica, piuttosto che la melassa indistinta e illeggibile – e comunque «ideologica» anch’essa – che un po’ ci ammorba dei palinsesti. È anche un modo curioso, obliquo e appunto paradossale, per permetterci di riappropriarci dei fatti, del reale «vero» (qui Kant mi perdonerà…), nell’epoca della loro scomparsa e sostituzione con narrazioni strumentali che si accampano con apodittica violenza come realtà alternative (e qui ci sta un consiglio gratis: guardatevi Dont’ Look Up apologo disincantato e ironico, e istruttivo, sulla società dei media e del fake).