Le delusioni di Mario Draghi

Mi resi conto che Mario Draghi voleva fare politica quando lo sentii parlare per la prima volta al meeting di Rimini nel 2009. Era il governatore della Banca d’Italia, ma non nominò mai la parola «banche». Parlò di suo padre, del coraggio, del lavoro, dell’orgoglio di essere italiani. Mario Draghi è un politico, sia pure di tipo nuovo. Non è cresciuto nei partiti, non è mai stato eletto in Parlamento. Però andare in Germania a dire no alla Bundesbank e alla sua linea monetarista, affermando di essere pronto a fare qualsiasi cosa pur di salvare l’euro, significa fare politica. Ora, dopo aver fallito l’ascesa al Quirinale, Draghi sta sperimentando un’amara verità: in Italia non puoi fare politica se non hai un partito, di cui sei il capo o almeno il capocorrente. Se ne rese conto Mario Monti, il quale non era forse il salvatore della patria che si sperava, ma non era neppure uno sprovveduto. Infatti avvertì l’esigenza di avere un suo partito e avrebbe fatto meglio a farsene uno nuovo anziché unire lacerti di quelli di prima (Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini). Romano Prodi volle che l’alleanza tra ex democristiani ed ex comunisti diventasse un partito. Matteo Renzi ha preferito farsi un suo partito anziché restare in minoranza nel Pd, secondo la logica per cui nel traffico caotico della politica italiana è meglio guidare uno scooter che essere seduto sul pullman condotto da un altro.

Se Draghi fosse in Francia, magari si candiderebbe alla presidenza della Repubblica, e sarebbe eletto, come Macron. Ma in Italia comandano ancora i partiti, per quanto messi maluccio. Con questo non intendo dire che Draghi farà il suo; non ci pensa neppure. Però qualcosa dovrà pur succedere perché un governo che ha in Parlamento una maggioranza teorica del 90% non può andare sotto quattro volte in un giorno, com’è accaduto di recente, ed essere costretto a mettere così spesso la fiducia. I governi di grande coalizione reggono se hanno un programma definito, non se tirano a campare. I leader di partito trovino l’intesa su tre o quattro punti chiari; altrimenti si rassegnino ad andare al voto, cosa che – Giorgia Meloni a parte – non conviene a nessuno.

Ho apprezzato Draghi fin da quando si insediò alla Banca d’Italia, nel 2006. «Mario Draghi, che mi ha sostituito, è bravo, competente, va benissimo ma è il mio opposto», disse Antonio Fazio. Aveva ragione: Draghi era il suo opposto. Non solo per lo stile: al suo ingresso a Palazzo Koch rifiutò di cedere la borsa al commesso – come faceva il suo predecessore – preferendo portarla di persona. Al primo viaggio a Francoforte non prese l’aereo privato ma un volo di linea. Non solo per la strategia di governo, in linea con la sua storia di artefice delle privatizzazioni degli anni Novanta e di autore della legge sull’Opa: no al neoprotezionismo, sì all’apertura alla concorrenza e alle liberalizzazioni. Ma anche per il modo di intendere la propria funzione. Alla vigilia delle sue prime «Considerazioni finali», il rito che nell’era del predecessore era divenuto evento mondano, Draghi spiegò ai collaboratori la sua visione del ruolo di Bankitalia. «L’epoca in cui la Banca era chiamata a supplire a compiti che spettano allo Stato è finita, e non da oggi», affermò. «La mia prima relazione non avrà un tono esortativo. Non si tratta di dire ai ministri e tanto meno agli imprenditori quel che devono fare. Il compito del governatore è semmai di far vedere cose che magari sfuggono. Cose che, se solo fossero viste, verrebbero eliminate. Si tratta di additare non orizzonti futuri, ma ostacoli attuali che rendono difficile il buon funzionamento del sistema economico».

Un esempio che ricorreva nelle conversazioni private del governatore è quello delle autostrade, che per il pagamento automatico dei pedaggi si avvalgono dell’intermediazione delle banche, quando invece potrebbero emettere direttamente le proprie carte, risparmiando. Era un cambiamento di cultura, oltre che di forme esteriori. Anche per questo il peggior servizio che si poteva rendere a Draghi era ricreare quel culto della personalità di cui Fazio era stato oggetto e nel contempo vittima: il governatore latinista, tomista, umanista… Anche oggi, che è al governo del Paese, a Draghi non servono gli elogi. Ne riceve fin troppi. Servono le critiche, purché oneste e in buona fede. La sensazione è che comincino ad arrivarne, ma spesso in mala fede.

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