«Arrivano ancora, soprattutto in estate. Si fanno portare dalle guide sul ghiacciaio di Hardangerjokulen, poi tirano fuori modellini e figurine per giocare alla battaglia su Hoth, il pianeta di ghiaccio di Guerre Stellari». Da veri professionisti, all’hotel Finse 1222 non commentano i riti di alcuni frequentatori di questa piccola struttura che, già nel nome, proclama l’orgoglio di una stazioncina coraggiosa: qui sfida ogni inverno, a «soli» 1222 metri di altezza e senza strade di accesso.
Si trova nell’Hardangervidda, l’altipiano più alto d’Europa dove la neve e i venti dell’artico non incontrano ostacoli. «Per questo lo avevano scelto come location, ma Harrison Ford era ossessionato dall’isolamento, voleva sempre a disposizione una motoslitta per non dipendere dal treno che poteva rimanere bloccato dalla neve». È una ferrovia molto particolare la Bergensbanen, e il Finse 1222 nacque proprio per ospitare ingegneri e operai impiegati nella costruzione di 493 chilometri, e 300 ponti, per collegare via terra Oslo a Bergen, attraverso le montagne che dividono la Norvegia orientale dai fiordi che precipitano nell’Atlantico.
Nessuna tecnologia però è riuscita a cancellare quel vago senso di distacco che ti coglie quando la pensilina svanisce dietro al finestrino come il molo di un porto, e quando un impercettibile gemito metallico del treno sembra presagire quello che lo aspetta ogni inverno: sette ore di viaggio tra i paesaggi siberiani della linea ferroviaria più alta d’Europa sfidando una meteorologia estrema che può bloccare strade e aerei.
Un’idea simile poteva venire solo a chi guardava quelle montagne in faccia tutti i giorni, Hans Gløersen, sovrintendente forestale di Voss, che nel 1871 aveva proposto questa utopia ferroviaria scatenando le inferocite proteste di chi temeva di veder violata per sempre la sacralità di queste montagne. Dodici anni dopo, un centinaio di chilometri di binari collegavano Bergen a Voss, ma era solo l’inizio di una tormentata saga ferroviaria perché mancavano 75 chilometri, e 1250 metri di dislivello, per raggiungere, a Taugevatn, il punto più alto della linea. Il granito norvegese si rivelò un osso duro e i norvegesi dovettero costruire persino le strade per portare i materiali; poi settecento tonnellate di dinamite cambiarono le sorti della ferrovia, anche se molti tunnel furono scavati a mano da quindicimila operai.
Nel 1907, dopo aver realizzato quasi duecento gallerie che misuravano complessivamente settantatré chilometri, le squadre che avanzavano da Oslo e quelle che salivano da Bergen si incontrarono a Haugastol, ma il primo treno ufficiale, bloccato per oltre un mese da una micidiale nevicata, raggiunse Bergen solo il 10 giugno 1908. L’anno dopo la ferrovia venne aperta al traffico ma rimaneva un avversario ancora più duro della roccia, la neve da combattere ogni inverno per nove lunghi mesi, soprattutto nei cento chilometri del «Tetto della Norvegia», l’altipiano di Hardangervidda dove i binari corrono in un deserto di ghiaccio privo di vegetazione.
«A quei tempi eravamo poveri ma riuscivamo a realizzare opere come questa» sbotta nella carrozza bar una cameriera che considera la ferrovia una storia di famiglia, «per fortuna hanno rinunciato a sostituirla con un’autostrada come chiedevano i politici; si sono resi conto del disastro ecologico che avrebbe potuto provocare». Dietro di lei i finestrini inquadrano rapide visioni di laghi dove strisce di neve e acqua color pece creano geometrie da optical art.
Dopo Haugastol e la fine della strada, il treno avanza tra nuvole di neve e i controllori tirano il fiato solo quando due convogli si incrociano nelle stazioni, perché con un solo binario, se un treno si blocca, anche quello che arriva dall’altra parte deve fermarsi. «Ormai è un evento raro anche se dobbiamo utilizzare tutti i giorni grandi macchine spazzaneve per liberare le rotaie – rassicura un controllore – ma siamo attrezzati per ogni evenienza con tunnel in cui ci sono depositi di rifornimenti e provviste». Sarà, però se il treno si ferma, tutti si guardano per un attimo e il silenzio diventa un vuoto acustico rotto solo da un vento che sembra risucchiare vagoni e rotaie.
Una sequenza di gallerie e muraglie paravalanghe annuncia l’entrata del convoglio nel cuore dell’Hardangervidda, punteggiato solo da stazioncine nel nulla, uniche vie d’accesso a villaggi privi di strade di collegamento o punti di partenza per lunghi trekking in sci. Per molti norvegesi, i più sfrenati appassionati di wilderness d’Europa, questo è un luogo dell’anima dove isolarsi dal mondo nella capanna «di famiglia», senza elettricità e acqua calda. Soprattutto a Finse, uno scenario artico perfetto anche per l’addestramento delle spedizioni dei più famosi esploratori polari, da Shakleton a Nansen e Amundsen, dove l’inverno trasforma il Finse 1222 in un palazzo del Dottor Zivago.
Quando il vento scarica punte di ghiaccio e la visibilità si riduce a pochi metri l’unico modo per non perdersi sono i rami secchi piantati lungo le piste che collegano la stazione alle poche case dove vivono stabilmente non più di dieci persone. Nei primi anni del secolo scorso c’era persino una scuola e folle di baronetti e ladies inglesi seguivano le orme dei benestanti di Oslo; un rito che deve aver lasciato tracce perché, ancora oggi, birignao da upper class britannica, emergono da ipertecnologiche tute che scompaiono nella tormenta.
Ogni tanto le luci fantasma di un treno si materializzano da una delle due gallerie, confini non troppo simbolici di Finse che il vento trasforma in scenari fantasy di ghiaccio, qualche volta imbrattati dal sangue di una renna che aveva cercato rifugio dalla tormenta. Persino i ponti non li vedi, li senti per una sorta di tuono improvviso sotto il vagone e solo il tran-tran ipnotico delle ruote rassicura sul fatto che esiste ancora una realtà.
A Myrdal, più a valle, molti turisti si trasferiscono sulla Flambana, un capolavoro ferroviario che precipita con una pendenza del 5,5 per cento per venti chilometri, e venti tunnel, fino a Flam, davanti a un fiordo ghiacciato. Un piccolo ferry scende il Naeroyfjord in un silenzio quasi religioso fino al porticciolo di Gudvangen da cui si raggiunge la Bergensbanen a Voss, prima dell’ingresso trionfale nella stazione di Bergen. Dove finisce il silenzio, almeno per chi non ha deciso, dentro di sé, di lasciare il cuore a Finse.