È la musa prediletta, bella e dannata. Lo è stata ieri e continua a esserlo oggi. New York da sempre seduce artisti e creativi, frastornandoli con le sue «mille luci», elettrizzandoli con la sua inspiegabile energia. La sua silhouette resta ricordo indelebile nell’anima di chiunque le abbia poggiato gli occhi addosso almeno una volta nella vita.
«L’amata, vecchia Manhattan», la chiamava lo scrittore Jack Kerouac, che l’adorò e la detestò con lo stesso impeto. Il padre di On The Road e della Beat Generation – di cui il 12 marzo si è celebrato il centesimo anniversario dalla nascita – ci era arrivato nel ’39, ragazzino fresco di diploma. In tasca una borsa di studio per la prestigiosa Columbia University, conquistata grazie al talento come giocatore di football.
Nonostante siano passati oltre ottant’anni, a New York aleggia ancora lo spirito libero e anticonformista di Kerouac. La città nel tempo è cambiata, ovviamente; c’è sempre meno spazio per gli artisti in cerca di fortuna, con pochi spiccioli in tasca e tanti sogni nel cuore; il capitalismo si è spinto all’estremo. Ma resta intatta, per chi avesse voglia di scoprirla, la stessa anima, magari solo un po’ ammaccata, che ammaliò Kerouac e molti suoi coetanei. La ritroviamo in quasi tutti i posti che il giovane Jack amava frequentare: in certi angoli delle strade e dei bar del Greenwich Village, tra i fili d’erba dei prati di Washington Square Park.
Quando arrivò a Manhattan, Kerouac scappava da Lowell, cittadina cattolica del Massachusetts troppo angusta e provinciale, per inseguire il fascino della metropoli. E New York gli cambiò la vita, accogliendo le radici di un’attività letteraria straordinaria, che l’avrebbe consegnato alla storia come uno degli scrittori più influenti del Ventesimo secolo.
Qui incontrò Allen Ginsberg e William Burroughs. Il cuore della controcultura Beat iniziava così a battere, alimentato da irresistibili slanci poetici e da fiumi di alcool e droghe. Prima che il fulcro del movimento si spostasse a San Francisco, sulla costa ovest, fu questo il polo della rivoluzione letteraria.
«Girovagavo per le strade, i ponti, Times Square, i caffè, il porto, andavo a trovare tutti i miei amici poeti e beatnik, e vagabondavo con loro, ho avuto storie d’amore con le ragazze del Village, provavo per tutto quella gioia folle che ti prende quando torni a New York City», scriveva Kerouac in Lonesome Traveler, la raccolta dei suoi diari di viaggio.
«Un viaggio nella New York di Kerouac non può non iniziare alla Columbia University. È lì che si formò il sodalizio da cui scaturì la Beat Generation», ci spiega Bill Morgan, il più importante archivista della Beat Generation, nonché autore del best-seller The Beat Generation in New York. Lo splendido ateneo – membro della Ivy League, la lega delle otto più prestigiose università private americane – sorge nell’Upper West Side di Manhattan. Fondata nel 1754, è l’istituzione universitaria più antica della città. Il campus storico – con i suoi eleganti giardini, le meravigliose sculture e le ricchissime biblioteche – ancora oggi ospita le menti più brillanti del mondo che qui vengono a perfezionarsi. Tra gli ex allievi ci sono presidenti (come Barack Obama), personalità di spicco e decine di premi Nobel. Si trova nel quartiere di Morningside Heights, zona in forte sviluppo, immersa nel verde. Jack Kerouac frequentò l’università solo per un breve periodo, finché un infortunio lo costrinse a ritirarsi dalla squadra di football.
Lo scrittore ebbe con la metropoli «un rapporto di amore e odio», racconta Morgan. «La verità è che non era a suo agio sia che si trovasse in campagna, in paese o in città; cercava sempre un altrove». Solo in età più matura decise di allontanarsi dalla vita cittadina, tornando a Lowell e poi in Florida dove morì nel 1969, a 47 anni.
Inquieto, non riuscì mai a dominare i lati bui della sua personalità. «Capitava che andasse in un bar e che qualcuno lo riconoscesse e gli offrisse da bere. La serata finiva sempre in rissa». E ne frequentava tanti di locali, soprattutto nell’amatissimo Village. Se oggi questo quartiere sta cedendo inesorabile il passo alla gentrificazione con la chiusura di tanti negozi e locali storici, a causa del caro affitti, negli anni Cinquanta fu casa di scrittori, artisti e musicisti in cerca di ispirazione, ma anche di abitazioni a prezzi accessibili. È dai bar e dai caffè di questo quartiere che la Beat Generation iniziò a scandire il nuovo ritmo della rivoluzione culturale che da New York sarebbe arrivata in tutto il mondo. Nonostante solo i più ricchi si possano ora permettere di vivere in una delle tipiche brownstone, le strade non hanno perso l’animo bohémien che sempre le contraddistingue. Perché se è vero che gli artisti squattrinati alloggiano altrove, in questi luoghi tornano sempre, facendo anche lunghi tragitti in metropolitana.
Washington Square Park, ad esempio, è un teatro a cielo aperto. Sotto l’arco di trionfo e intorno alla spettacolare fontana, ogni giorno, si ritrovano musicisti, ballerini, giocolieri, studenti (della vicina New York University), ragazzi sullo skateboard. Ognuno fa il suo show, per esercizio o per lavoro. Al tempo, i poeti Beat si riunivano qui, discutendo di letteratura e filosofia. Come a quel tempo, non mancano bottiglie di alcolici vuote (anche se ora è illegale negli spazi pubblici) accanto alle panchine o lungo il bordo del fontanone. In questo quadrato di verde e creatività, lo strappo alle regole è più che tollerato.
Il Greenwich Village smetterebbe di essere il «Village», poi, senza i suoi locali storici. Come Caffe Reggio (al 119 di MacDougal St.), rimasto pressoché intatto, sin dai tempi in cui Kerouac e compagni venivano a rifocillarsi. Questa caffetteria è stata la prima a servire in America il cappuccino, grazie alla lungimiranza del proprietario Domenico Parisi. Ancora oggi i clienti, che spesso vengono qui a lavorare con i loro computer, possono ammirare non solo l’originale macchina dell’espresso, ma anche gli splendidi dipinti che omaggiano il Rinascimento.
Sulla stessa strada c’è ancora anche il Café Wha? (al 115 di MacDougal St.) in cui, nei primi anni Sessanta, si esibì una delle prime volte a New York un semisconosciuto Bob Dylan. Molti famosi musicisti, tra cui Jimi Hendrix e Bruce Springsteen, hanno suonato tra queste mura. Oggi continuano quelle che saranno le prossime star: la qualità degli spettacoli è sempre garantita.
Poco distante, si trova Minetta Tavern (al 113 di MacDougal St.) un ristorante originariamente italiano che ha servito molti scrittori nel corso degli anni, inclusa la combriccola Beat. Durante il proibizionismo, ristorò Ernest Hemingway e John Dos Passos. Qui è difficile trovare un posto senza aver prenotato giorni prima. Un’istituzione per la sua storia appunto, ma anche per il famoso hamburger.
Le serate dei Beat si concludevano spesso alla White Horse Tavern (al 567 di Hudson St.). Al bancone in legno, si accomodò anche Dylan Thomas, che morì dopo aver bevuto qui fino allo sfinimento. Per un periodo, Kerouac visse in un appartamento di fronte al locale. Secondo la leggenda, date le lunghe permanenze innaffiate da litri di alcool, pare che qualcuno avesse scritto sui muri della toilette l’invito «Jack go home!», va’ a casa.
Non solo bar. Nella mappa della New York di Kerouac, non manca una chiesa: Nostra Signora di Guadalupe (al 229 West di 14th Street) in cui spesso lo scrittore – devoto cattolico – trovò conforto.
Bisogna spostarsi a Chelsea, però, per ammirare la casa di mattoni rossi (al 454 West di 20th Street) dove Kerouac visse con la seconda moglie Joan Haverty. Tra queste mura (oggi abitazione privata) nel 1951 in tre febbrili settimane, imbottito non di droghe ma di caffè, Kerouac batté su un unico rotolo di carta lungo 36 metri la prima bozza del suo capolavoro, On the Road (Sulla strada). «Sono andato veloce – disse all’amico Neal Cassady, che ispirò il protagonista del romanzo – perché la strada è veloce».