Nella scia di Icaro: il fascino del Wingsuit

Erano, quelli, gli Anni Novanta, quelli in cui questa disciplina faceva il suo grande ingresso fra gli sport estremi. C’è però modo e modo di usare la tuta alare: c’è chi la indossa per fare del base-jumping, come appunto de Gayardon e i suoi emuli, oppure chi lo fa nell’ambito del paracadutismo, lanciandosi dunque da un aereo. E fra questi ultimi c’è Massimo Guidi, che abbiamo incontrato per conoscere più da vicino questo sport.
«Per chi non lo pratica, di prim’acchito può sembrare una cosa estremamente pericolosa. Non a caso quando avevo accennato a mia madre dell’intenzione di lanciarmi con una tuta alare, 3 o 4 anni fa, qualche reticenza da parte sua c’è stata – racconta il 34enne di Arbedo –. D’altra parte la capisco… Per rischioso che sia, il paracadutismo è però di gran lunga più sicuro del base-jumping. Non foss’altro che quando ti lanci da un aereo, di ostacoli fisici non ne hai, se non i compagni in volo con te… Partendo da una quota di 4000 m, poi, anche se per un motivo qualsiasi perdi per qualche secondo il controllo della situazione, hai tempo a sufficienza per porvi rimedio. Lanciandoti da una roccia, invece, il margine d’azione è praticamente nullo. Le due discipline si praticano sì con la medesima tuta, ma cambiano i paracadute: quello da base-jumping è uno solo, mentre noi ne abbiamo anche un secondo, di emergenza, e non da ultimo un sistema di estrazione automatico della vela in caso di superamento della quota minima limite».
Malgrado trecento lanci con la tuta alare all’attivo, Massimo non si sente un «veterano» di questo sport: «No, affatto; sono piuttosto un paracadutista… della domenica. Con una bambina nata da poco, poi, il tempo da dedicare a questo sport si è ridotto di parecchio. I più esperti (uno su tutti lo svizzero Daniel Ossio) viaggiano sull’ordine di migliaia di lanci con le tute alari».
Al Wingsuit, a ogni buon conto, non si arriva così dal nulla: ma per gradi. «Si comincia col paracadutismo classico. E anche qui c’è una scaletta ben definita da seguire: prima il corso base, poi il conseguimento del brevetto e infine, quando si è raggiunto un minimo di duecento lanci col paracadute, si può fare il grande passo». Il fine, nel caso di Massimo, giustifica i mezzi: «Fin da quando ho visto la prima tuta alare ho capito che quella sarebbe stata la mia strada: è stato quello che mi ha spinto a fare il paracadutismo, visto che per arrivare al gradino finale dovevo per forza passare da lì».
E cosa si prova quando si è nell’aria, col vento che gonfia la tuta e il vento che ti sferza contro? «Premetto che quello di indossare il Wingsuit è stato l’ultimo step di un avvicinamento all’aria iniziato nel 2013 col parapendio, per poi passare allo speed flying (decollo da una pista da sci, con una vela piccola, ma di questo non è detto che torneremo a parlare in un’altra puntata), il paracadutismo e, da ultimo, appunto, la tuta alare, per cui la sensazione di librarmi nel vuoto già la conoscevo. A spingermi in quota è logicamente stata la passione per il volo, che avevo fin da ragazzo. Malgrado sia diventata una sorta di routine, ogni volta che mi lancio avverto una certa scarica di adrenalina, anche dopo così tante volte… con la testa tra le nuvole. Quando ci si lancia nel vuoto si prova una sensazione di assoluta libertà. Ti senti né più né meno come un aereo, che puoi governare semplicemente muovendo anche solo la testa o il baricentro del tuo corpo. C’è chi in gruppo fa le uscite in bici, io, invece, in gruppo mi lancio nel vuoto con la tuta alare: spesso, infatti in quota ci vado in compagnia».
Da come lo racconta, sembra quasi essere… nato con la tuta alare indosso. «No, affatto. Ho fatto anch’io la gavetta, e le prime volte, quando mi lanciavo in tandem, per trovare il coraggio di salire sull’aereo mi è anche capitato più di una volta di bere un limoncino. L’apice della tensione lo provi quando si apre il portellone dell’aereo e senti l’aria entrare: è lì che percepisci che è arrivato il grande momento. Le prime volte ti si stringe lo stomaco, soprattutto quando scorgi quel minuscolo puntino a terra che rappresenta l’aeroporto di Magadino, dove sei… diretto. Col passare del tempo e l’esperienza, poi, queste sensazioni forti si attenuano. Anzi, dopo la pausa invernale senti che hai proprio voglia di tornare a rivivere quelle emozioni. Paura vera e propria, però non ne ho mai avuta in aria. Anzi, a dire la verità ne ho provata di più alcune volte quando l’aereo che ci portava in quota veniva sbalzato da qualche turbolenza, al punto di non vedere l’ora di saltare fuori. Non amo essere in balìa degli eventi; preferisco avere il controllo della situazione, cosa che appunto mi riesce quando sono io a gestire il volo, anziché un aereo».
La fase più delicata del volo? «Con la tuta è l’apertura del paracadute: la sua superficie più estesa ti permette di avanzare tanto in verticale quanto in orizzontale, e questo fa sì che si creino delle turbolenze particolari attorno al “pilotino”. Pertanto per estrarlo al momento giusto e nella posizione giusta, evitando dunque una discesa a spirale, occorre effettuare una manovra molto simmetrica col corpo».
Grazie alle sue «bocchette» (generalmente quattro), in quota il Wingsuit si pressurizza, irrigidendosi. «È questo a permetterti di volare: quando ti lanci dall’aereo con indosso questa tuta ti senti a tua volta una sorta di aereo». Con la tuta alare si possono raggiungere velocità che superano i 200 km/h. La quota di lancio è la stessa del paracadutismo classico: 4000 m. «Ma se col paracadute standard generalmente la caduta libera dura un minuto, con un Wingsuit come il mio puoi arrivare a due minuti e mezzo prima di aprire la vela».

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