Una grande bacheca contenente ogni sorta di elefanti con la proboscide rigorosamente all’insù: è quanto ci si presenta dinanzi a casa di Pietro, il loro collezionista. E a guardar bene, quella vetrina straripante incanta e ipnotizza perché ve ne sono di ogni dimensione, dal più piccolo, che misura a malapena un paio di centimetri, a quelli che stanno nel palmo di una mano, fino ai più grandi che trovano spazio sopra la vetrina perché dentro proprio non ci stanno. Vien voglia di scrutare fra i vari pachidermi, per individuare quello più originale, più colorato, di materiale più strano e, lo ammettiamo, alla ricerca di quello che non abbia la proboscide rivolta verso l’alto. E in mezzo a tanti qualcuno lo troviamo, perché Pietro ne ha portati a casa pure due o tre che non sono omologati al rigore della «proboscide in su» di chi colleziona questo tipo di animale: «Sono pochi quelli con la proboscide abbassata, è vero, ma sono belli lo stesso».
In totale, contiamo all’incirca trecento elefanti e ne additiamo qualcuno di cui ci intriga sapere come è arrivato fino lì. La risposta di Pietro ci sorprende un po’: «Nessuno ha una storia speciale: ricordo il primo perché me lo aveva venduto nel 1995, al bar, un signore che girava nei ristoranti a vendere chincaglierie». Ce lo mostra ribadendo che non è affezionato in particolar modo a nessuno di essi. Pietro pare voler creare distanza emotiva fra sé e la sua collezione. Malgrado ciò, egli ricorda la storia di tutti quelli che gli indichiamo, come ad esempio quello a dondolo di legno e tanti altri: «Questo ricordo di averlo comprato a Bellinzona, al mercato. Penso sia un giocattolo per bambini».
Chiediamo allora quale sia quello che viene da più lontano, l’elefante di maggior valore e via dicendo, uno dopo l’altro, fra i pachidermi che più ci incuriosiscono: «Alcuni me li hanno regalati, mentre quelli che hanno maggior valore sono due in avorio che ho acquistato a Lugano, durante una svendita. In realtà, dopo il primo, li ho comperati tutti io ovunque andassi: li andavo a cercare per negozietti e mercatini, ma nessuno viene da particolarmente lontano perché li ho trovati per lo più fra la Svizzera e l’Italia».
La storia insegna che l’elefante gode di un significato positivo in tutto il mondo e non meraviglia la ricchezza estrema della sua simbologia. Nelle diverse culture questo animale può infatti rappresentare la saggezza, l’intelligenza, la sensibilità, la nobiltà, la famiglia, la longevità, la fedeltà, la determinazione, la pazienza, la devozione, e in alcune credenze anche la fertilità e colui che porta la pioggia. Ma il significato positivo di maggior valenza riguarda il fatto che l’elefante con la proboscide alzata è considerato simbolo di portafortuna.
L’origine di questa credenza arriva dall’India e dal sud-est asiatico, dove gli elefanti vengono venerati e rappresentati in molte raffigurazioni spirituali. Infatti, il Dio indù Ganesha è raffigurato come un uomo obeso con la testa da elefante ed è proprio considerato il Dio della fortuna, del successo e della saggezza. In seguito, nel XX secolo, gli americani trasferirono il simbolo della fortuna dal Dio Ganesha all’elefante. Per questo motivo si possono trovare statuette di elefante in casa dietro la porta, oppure una statuetta con l’elefante con la proboscide all’insù, a portare fortuna alla casa o al luogo in cui è posto.
Tornando al nostro collezionista, quel primo elefante acquistato in un ristorante gli ha proprio portato tantissima fortuna: «Il mio primo elefantino è arrivato in un momento molto particolare della mia vita, quando mi sono ammalato gravemente e ho pure rischiato di morire. Tutto però è andato bene, e i medici mi hanno detto che sono stato molto fortunato. Allora ho pensato che forse fosse proprio quell’elefantino ad avermi portato fortuna e mi è venuta voglia di comprare elefanti dovunque andassi».
Ma il colpo di scena arriva come un fulmine a ciel sereno quando Pietro ci confida che ora desidera separarsi dai suoi numerosissimi elefanti: «Da un paio d’anni non ho più quella passione di cercarli e comperarli. Mi sono stancato, ecco tutto, e forse è arrivato il momento di passarli a qualcuno che può apprezzarli più di me, perché oggi li sto trascurando, non li spolvero più con la costanza di sempre e non sto nemmeno più a guardarli come state facendo voi ora».
Un’affermazione che permette di comprendere come anche un collezionista possa, a un certo punto, volersi separare dai suoi beniamini. Ma questi oggetti sono speciali perché portano fortuna e ci chiediamo se sia saggio cedere la propria fortuna ad altri: «Non sono particolarmente scaramantico e ritengo di aver già avuto abbastanza fortuna perché sono guarito e sono vivo. Ora mi piacerebbe che qualcuno li possa tenere in un posto dove la gente possa vederli: una vetrina, un negozio? Così la fortuna che essi rappresentano potrà essere condivisa».
Dice di aver «superato la fase del possesso» insita in ogni collezionista: «Non guardo più i miei elefantini, e allora perché tenerli rinchiusi in una teca? E poi, è passato più di un anno e mezzo da quando ho acquistato l’ultimo». Anche se: «Comunque, se vedessi un elefantino in un negozio o da qualche altra parte, lo comprerei ancora, sì, se dovesse piacermi».
Fortuna che va, e fortuna che torna con un possibile nuovo acquisto, a una condizione, spiega Pietro: «Ma deve venire lui da me e non andrò a cercarlo apposta, come facevo, nei negozietti di roba usata e nei mercatini».
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