Hackers, makers, bracconieri e falsi nueve

by Claudia

Tra il ludico e il dilettevole - Un esercito di originali creativi del bricolage pratici di codici binari e serie TV, opportunisti dei palloni vaganti e giardinieri dilettanti

Si muovono agevolmente dai margini al centro, e dal centro ai margini. Parlano i linguaggi della contemporaneità, si spostano fra le righe, spesso in modo imprevedibile, sfuggendo gli sguardi, eludendo i controlli, depistando le logiche. Sono legati al doppio filo della creatività: per sopravvivere al presente devono essere creativi e, se sono abbastanza bravi, il futuro li ricompenserà. Si chiamano hackers, makers, bracconieri e falsi nueve. Sono tutti, a modo loro, dei moderni bricoleurs. Chi manipolando codici binari, chi guardando serie TV, chi giocando di opportunismo sui palloni vaganti, e chi dilettandosi con gli strumenti del giardinaggio.
Per sociologi e antropologi, il bricoleur è una figura importante. L’antropologo Claude Levi-Strauss, per dire, ha nobilitato il bricolage trasformandolo in metafora della cultura come atto creativo. Così come gli antropologi hanno trovato nel bricolage – e in un insieme di tecniche localizzate e appartenenti alla sfera dell’arte e del tempo libero –, una chiave di volta per illustrare il costante processo di assemblaggio, costruzione, e trasformazione del reale, allo stesso modo anche le nostre quattro figure ci rimandano al passaggio dal locale al globale. I nessi che avvicinano le nostre quattro figure all’arte del bricolage si leggono, inoltre, anche nel destino delle parole che le definiscono.
Delle quattro figure proposte, l’hacker e il maker provengono dallo stesso humus socio-culturale e sono decisamente contigue. Tuttavia, se il verbo inglese to make e il sostantivo maker rimandano a un significato sufficientemente generico per indicare attività diverse, il verbo inglese to hack all’inizio era piuttosto lontano dal senso che lo ha reso popolare: in effetti, in origine to hack significa fare a pezzi, e il sostantivo hack significa taglio o ferita. Nondimeno, come sappiamo, da qualche decennio il termine hacker è entrato in tutte le lingue del mondo con il significato di «dilettante appassionato di informatica, capace di introdursi senza autorizzazione in reti protette di computer o di realizzare virus informatici» (www.dizionari.corriere.it).
La nascita e l’ascesa della figura dell’hacker è inscindibile dalla storia della controcultura americana. Nelle intenzioni dei precursori, però, lo spirito che il termine hacker incarnava non si esauriva nell’idea di smanettare abilmente con il computer. Quando la pratica dell’hacking nacque e si diffuse, l’hacker intercettava un ventaglio piuttosto ampio di attività che andavano dalle sperimentazioni musicali con chitarre distorte e luci stroboscopiche, all’organizzazione di comunità eco-sostenibili, alla propensione per i viaggi psichedelici; fino, appunto, all’interesse per i computer. Steward Brand, uno dei pionieri della rivoluzione culturale che ci porta all’odierna società dell’informazione e della comunicazione, una volta si espresse in questi termini: «un hacker non dà nulla per scontato, ritiene che la creatività possa essere applicata a qualsiasi cosa e che la varietà che ne deriva aumenti i nostri livelli di adattabilità, resilienza e piacere».
Semplificando un po’ le cose, gli hacker e i loro cugini maker sono fondamentalmente degli sperimentatori e degli autodidatti. La loro passione è l’artigianato in tutte le sue forme, dai computer al legno passando per il giardinaggio. L’affinità fra i due termini è confermata dal fatto che a popolarizzare il termine maker esaltandone l’anima rivoluzionaria da bricoleur sono, ancora una volta, i precursori della controcultura come Brand o Kevin Kelly, oggi nei panni dei nuovi guru della Silicon Valley. Chris Anderson, ex direttore della rivista «Wired», non ha dubbi sulla portata del fenomeno. Ecco cosa dice nel suo libro Makers: The New Industrial Revolution (2012): «Se ti piace seminare, sei un maker in giardino. Sferruzzare e cucire, tenere un album dei ricordi, decorare con le perline, e ricamare a punto croce: è tutto making». Di fronte a una tale promessa di inclusività, e a un tale entusiasmo, siamo tentati anche noi di lasciare tutto e di unirci alla causa dei makers: chissà che magari non ci ritroveremo a decorare perline in un moderno makerspace, uno spazio multifunzionale concepito per ospitare le attività e incoraggiare lo spirito imprenditoriale dei makers.
A patto, naturalmente, di non scordarci dell’imprescindibile animo ribelle che caratterizza tanto gli hackers che i makers, e che ritroviamo nella figura del bracconiere. In realtà però non stiamo parlando di un vero e proprio bracconaggio, perché in questo caso il termine, usato da Michel de Certeau ne L’invenzione del quotidiano (2001), è da intendere in senso figurato. Secondo il gesuita, antropologo, linguista e storico francese ognuno di noi nella vita quotidiana mette in atto tutta una serie di micro-strategie, sviluppa dei rituali e delle tecniche attraverso cui personalizza la propria esperienza dello spazio e del tempo. Selezioniamo le informazioni che ci sono utili, disegniamo delle mappe con cui solchiamo il territorio. Come quando facciamo zapping, o attraversiamo con rapidità, a grandi salti, il paesaggio dell’offerta multimediale di una piattaforma streaming, per fermarci giusto il tempo di prendere (saccheggiare) quello che ci interessa. Comportandoci, di fatto, come dei bracconieri digitali.
Il termine «bracconaggio» usato da Michel De Certeau ha un senso positivo, perché permette di spiegare come ognuno di noi si ingegna a comporre, a mo’ di bricoleur, la propria quotidianità, arrangiandosi in modo creativo con le risorse a disposizione. Chi deve far prova di ingegno e di opportunismo, e di fiuto del goal, è anche il falso nueve. Si tratta di un ruolo, o forse sarebbe meglio dire un non-ruolo, calcistico, sintomatico dell’evoluzione di questo sport e di come alcuni suoi protagonisti (su tutti il tecnico spagnolo Pep Guardiola) abbiano inciso su tale evoluzione. Un sito specialistico lo definisce così: «Il falso nueve (…) è un giocatore che non va praticamente mai a occupare lo spazio della prima punta, che diventa decisivo in quella zona di campo proprio per la sua assenza». Inserendosi nella logica di uno sport dinamico e fluido, il falso nueve incarna l’imprevedibilità e la velocità del calcio moderno. Sta a lui capire quando, mettendo insieme i pezzi del gioco, uscire dall’invisibilità per costruirsi, quasi dal nulla – come un bricoleur modello –, l’azione vincente. E di sicuro qualcuno dirà, commentando l’azione, che ha rubato un goal. Come un bracconiere.