Tequila, storia di una seduzione culturale

Oggetto del desiderio di divinità azteche e conquistadores spagnoli in crisi di astinenza alcolica, di contrabbandieri inseguiti dai Texas Rangers e celebrities holywoodiane annoiate dal Chiantishire, ha conquistato persino narcos in cerca di lucrosi investimenti. Nessuna bevanda al mondo è così impregnata di storie e miti, oltre che di irresistibili aromi, come la tequila. Femminile in italiano, in spagnolo è un nome rigorosamente al maschile, come è inevitabile in una terra dove il machismo ancora oggi rasenta, e spesso oltrepassa, il senso del ridicolo.
Soprattutto nello Stato di Jalisco, «orgullo de Mexico» come lo definiscono i tapatios, i cittadini di Guadalajara che non annoverano la modestia tra le loro virtù, dall’alto dell’inossidabile certezza di essere la culla di tutte le icone nazionali, dai mariachi ai charros, i cow-boys messicani. Anche el tequila nasce a pochi chilometri di distanza, tra vallate ricoperte da milioni di agavi azzurre che si rincorrono a perdita d’occhio avvolgendo in un abbraccio protettivo la sonnolenta cittadina di Tequila dove anche l’aria è impregnata del profumo inebriante di una bevanda celebrata in modo equanime da spaghetti-western e colossal hollywoodiani.
Quando al mattino si svegliano e guardano le piantagioni, gli abitanti si sentono tranquilli, perché «Le agavi i giapponesi non riusciranno mai a copiarle». A imitare il loro gioiello ci hanno provato in tanti ma una tequila come la fanno qui non la trovi in nessun altro posto, grazie anche alla sapienza di generazioni di contadini che con pochi colpi di machete sanno mettere a nudo la «pigna», il cuore dell’Agave Azul dove la concentrazione di zucchero è più alta.
Tutto iniziò quando i conquistadores esasperati dalla scarsità di alcolici che tra tempeste e pirati tardavano ad arrivare dalla madrepatria si ingegnarono a creare un surrogato autoctono, il mezcal, molto simile alla tequila, anche se non tutti i mezcal sono tequila. Da allora tonnellate di agavi potenziano il loro sapore cuocendo lentamente per un giorno intero nei forni tradizionali anneriti da secoli di produzione, pronte per essere spremute in grandi mulini, fermentate e sottoposte a numerose distillazioni.
L’ultima fase determina quale tequila ricavare dai vari sughi, a seconda dei tempi di invecchiamento e gradazione alcolica, Blanco e Plata provengono dall’ultimo raccolto, il Reposado invecchia per almeno due mesi e l’Anejo, il più pregiato, riposa per un anno in botti di quercia. Poi el tequila prende strade diverse, quelli che bruciano la gola come una staffilata si consumano oltre le porte girevoli delle ultime cantinas sopravvissute alla globalizzazione accompagnati da corridos strappalacrime, ballate di un universo che oscilla tra la donna che tradisce, l’amico infido e il cavallo fedele fino alla morte. Quelli più sofisticati vengono sorseggiati in locali trendy and cool, per non parlare delle versioni 2.0 proposte su Internet addirittura per combattere colesterolo e malattie veneree.
A ognuno la sua tequila insomma, un successo apparentemente inarrestabile soprattutto dopo la Denominazione di Qualità riconosciuta internazionalmente, come il cognac o lo champagne. Con una produzione che l’anno scorso ha raggiunto i 273 milioni di litri, otto volte superiore a quella di inizio del secolo, con un giro di affari di undici miliardi di dollari. Una storia di successo ma anche di fatica e cadute, aspra come la Sierra Madre e le piste lungo il Rio Grande dove negli anni Venti del secolo scorso contrabbandieri celebrati come Robin Hood in lotta contro i gringos guidavano carovane di muli carichi di liquore oltre il confine con gli Stati Uniti, sfidando il Proibizionismo e le pallottole dei Texas Rangers.
Proclamata proprietà intellettuale del Messico nel 1974, la tequila riprese la sua scalata alla gloria e già nel 2011 diciotto milioni di Agave Azul non bastavano a soddisfare una domanda stratosferica. Anche perché la denominazione spetta solo all’acquavite di agave prodotta nello Stato di Jalisco e in alcune aree degli Stati di Nayarit, Guanajuato, Michoacàn e Tamaulipas, e l’agave blu cresce solo tra i mille e i duemila metri di altitudine: è così che i romantici contrabbandieri del passato sono stati sostituiti da bande armate a caccia di piante da rubare a colpi di machete, circa quindicimila solo nel 2016, costringendo i coltivatori a difendersi con guardie armate.
Oggi un centinaio di distillerie producono oltre novecento marchi di tequila, la maggior parte proprietà di multinazionali, e una visita del presidente cinese Xi Jinping ha spalancato ai tequileros le porte del mercato cinese. Il successo di un’industria in continua crescita non poteva lasciare indifferenti i narcos messicani che si sono fatti avanti con offerte «che non si possono rifiutare», soprattutto alle aziende locali, dal riciclaggio al trasporto della merce nascosta tre le bottiglie dirette verso gli Stati Uniti. Persino la famiglia di El Chapo Guzmán, storico leader del cartello di Sinaloa, ha lanciato il brand El Chapo 701 che rivendica orgogliosamente il numero occupato dal padre nella classifica delle persone più ricche al mondo di Forbes.
L’ultima sfida, apparentemente più innocua, si è materializzata negli anni scorsi quando celebrities hollywoodiane e star sportive hanno creato il loro brand, da George Clooney con Casamigos nel 2013, a Pierce Brosnan con Don Ramon, Michael Jordan con Cincoro e James LeBron con Lobos 1707. La cosiddetta «Tequila delle Star», spinta anche dall’impatto dei social, non solo macina profitti e notorietà prosciugando i guadagni dei piccoli coltivatori ma, secondo molti esperti, abitua il pubblico a un gusto lontano da quello tradizionale perché utilizza nuovi aromi e metodi di lavorazione. Tutti vantano produzioni artigianali e sostenibili ma i numeri sembrano smentirli perché per produrre un litro di tequila sono necessari dieci litri d’acqua e le coltivazioni di agave blu consumano sedicimila ettari ogni anno solo nello Stato di Jalisco, per non parlare delle scorie acide che contaminano i terreni.
Il rischio di essere accusati di cultural appropriation con un impatto micidiale per l’immagine ha allarmato alcuni VIP, e George Clooney lo ha capito per primo vendendo il suo Casamigos a una multinazionale per un miliardo di dollari. Nel frattempo el tequila verdadero difende con le unghie e con i denti il suo status di oggetto del desiderio che la globalizzazione ha trasformato in seduzione culturale. Lontano da qui però, dove è ancora un punto fermo dell’anima che riduce i dolori e le disillusioni quotidiane a una scrollata di spalle.

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