Mamé torna a casa

Ritrovare il respiro dell’alto mare è sempre stata una necessità che, per oltre due anni, le circostanze mi avevano negato. Un tempo esagerato per Mamé, la mia piccola barca, costretta a una sosta che cominciava a essere troppo lunga. Dapprima il furto del motore fuoribordo nell’Irlanda del Nord. Poi la perdita di quello appena sostituito a sud di Dublino sulla via del ritorno. Poi ancora la pandemia più altri accidenti. Insomma, quest’anno il rientro in Bretagna era l’obiettivo che dovevo conquistare. Avrei navigato con Federica, mia figlia. Sapevamo che non sarebbe stata una passeggiata. Non tanto per la lunghezza complessiva del percorso, i turni durante la notte con le sue luci, le possibili intemperie o gli imprevisti, quanto per il tipo di mare che avremmo dovuto attraversare: notoriamente duro, sempre agitato e ricco di correnti. Una rotta che dal mare d’Irlanda ci avrebbe portato nel canale di Bristol per concludere con la Manica. Mamé doveva pertanto essere pronta a riprendere il mare e non dovevamo trascurare alcun dettaglio. Come ad esempio lasciare asciugare l’interno rimasto a mollo in mezzo metro d’acqua. Un episodio increscioso che aveva danneggiato il legno del paiolato, creato macchie di muffa e, soprattutto, neutralizzato parte dell’impianto elettrico. «Deve essere stato il getto troppo violento dell’idropulitrice», diceva Peter, un anziano e premuroso amico irlandese che aveva preso a cuore le sorti della barca stazionata a Arklow durante la mia assenza. Così, dopo averla fatta asciugare per bene, svuotata di tutto il ciarpame accumulato durante gli anni e verificato il funzionamento delle poche ma essenziali apparecchiature a bordo, prima dell’ultimo inverno la faccio ricoprire da un telo di plastica. Una possibilità per ritrovarla almeno asciutta l’anno dopo.
«She’s seaworthy» (non teme il mare), afferma Peter quando, dopo esser tornati in giugno e dopo gli ultimi ritocchi gli annunciamo la decisione di mollare gli ormeggi. Il piano di navigazione consisterà in tre tappe. Per la prima, una sorta di rodaggio di una cinquantina di miglia, lasciamo Arklow verso sud-ovest alla volta di Kilmore Quay, un suggestivo borgo di pescatori della contea di Wexford. Affacciato sul mar Celtico è il trampolino ideale per raggiungere le isole Scilly. La meteo è favorevole, avremo vento al traverso fino all’arrivo. L’ingresso del porticciolo richiede molta attenzione, va imboccato con l’alta marea per evitare di incagliarsi su bassi fondali rocciosi (com’era già successo qualche anno prima…). Lasciamo Arklow poco dopo mezzogiorno e, con vento e corrente favorevoli, impieghiamo poco più di nove ore per entrare a Kilmore Quay. Rimaniamo colpiti dai molti pescherecci ammucchiati nel piccolo porto per lunghe soste a causa del costo del gasolio. Intanto ho un brutto raffreddore: «Babbo, dovrai startene tranquillo in barca almeno un paio di giorni», è il saggio consiglio di Federica. E io obbedisco, mentre lei visita tutto il paese e si fa aiutare dai passanti per trovare un passaggio fino alla farmacia del villaggio vicino sfoderando il suo disarmante sorriso… Le notti sono fredde, siamo in banchina così possiamo accendere la stufetta elettrica. Ne approfittiamo per rivedere le scorte a cui avevamo aggiunto qualche busta di cibo liofilizzato: porzioni pronte con tre centilitri d’acqua calda che ci faranno risparmiare penosi equilibrismi ai fornelli. Il tragitto è quello più lungo: 145 miglia nel mar Celtico attraverso il canale di St. George e poi quello di Bristol.
Dopo un paio di giorni sto effettivamente molto meglio così decidiamo di ripartire di buon’ora. Dopo 5 miglia a motore passiamo rasenti (forse un po’ troppo) alle piccole isole Saltee ma la rotta poi si assesta. Il vento è variabile e il mare è bizzoso con onde spezzate. Facciamo vela e motore, si balla parecchio ma siamo accompagnati dalle evoluzioni dei delfini: mai visti così tanti. Ci seguono anche durante la notte, umida e fredda, vediamo la loro allegra scia luminosa di plancton che sembra indicarci la rotta. Facciamo un paio di turni ma la notte a quella latitudine è breve e l’alba ci restituisce presto la visibilità necessaria per l’arrivo alle Scilly evitando gli incroci con i pescherecci e schivando le numerose boette delle reti disseminate qua e là. Dopo 14 ore entriamo con 10 nodi nella baia di St Mary’s e ormeggiamo al gavitello. Siamo in balìa delle onde di risacca ma un miracolo impedisce che quel balletto continuato si trasformi in mal di mare. Un incubo che ci è stato risparmiato per i cinque giorni in cui siamo rimasti fermi per lasciare passare violente perturbazioni. Mamé non ha fatto una piega, anzi sembrava apprezzare quella danza. Durante il giorno scendevamo a terra con il dinghy, il gommone di un metro e mezzo (e teatro di indimenticabili scene comiche) oppure approfittavamo dell’acqua-taxi del capo-porto o ancora, come in una giornata di sole, di un traghetto per visitare Bryher, la più piccola delle cinque isole abitate dell’arcipelago delle Scilly dove Federica si tuffa nelle sue acque pulitissime e gelide. La sera invece, dopo aver mangiato accendevamo la stufetta ad alcol per scaldarci e guardare un filmetto prima di addormentarci cullati dall’incessante minuetto marino.
Dopo aver confrontato le previsioni meteorologiche fra i consigli dell’immancabile Peter che regolarmente monitorava la situazione ecco il suo messaggio: «Il tempo è ancora instabile ma domani potreste ripartire». Dovevamo solo scegliere l’ora giusta per affrontare le 130 miglia che ci separavano dalla Bretagna. Ad aiutare la decisione è certamente sapere quando attraversare il corridoio di traffico della Manica, una decina di miglia che occorre tagliare perpendicolarmente. Possibilmente durante il giorno: la visibilità è importante e quelle navi cariche di container non rallentano per farci passare. Lasciamo così le Scilly poco prima delle 12 dopo giorni e notti di toboga in mezzo alla baia. Partiamo con una leggera brezza da sud-ovest e mare formato, soprattutto dopo le perturbazioni che l’hanno agitato. E la Manica non si smentisce, è sempre impegnativa: un’avventura anche questa volta. Troviamo infatti un mare molto mosso, onde da ogni parte fra i 2 e i 5 metri a cui si aggiungono frequenti groppi. Uno in particolare che ci procura una solenne lavata che infradicia tutto il nostro equipaggiamento. I guanti in particolare. Stringiamo i denti e, dopo aver superato il corridoio di traffico, ormai infreddoliti, ci prepariamo ad affrontare la notte con un paio di turni di tre ore. Federica ormai ha un rapporto disinvolto con Mamé e posso fidarmi ad occhi chiusi per ogni cosa (e dormire tranquillo). Impieghiamo 15 ore per ormeggiare nel porto di Bloscon a Roscoff. La soddisfazione e l’emozione per aver riportato Mamé in Bretagna è tanta. Lo si legge nei nostri sguardi e nel sorriso che ci accompagna all’arrivo in banchina. Ora la barca riposa in un cantiere a cui è stata affidata per rimetterla un po’ a nuovo. Ne ha fatte e viste tante, ora si merita un piccolo restauro prima di riprendere il mare. Ma stiamo già mordendo il freno…

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