La Svizzera potrebbe mettere al bando l’allevamento industriale, se dovesse accogliere il 25 settembre l’iniziativa popolare «No all’allevamento intensivo in Svizzera», che mira, tra l’altro, a ridurre il consumo di carne. È la sesta volta dal 2017 che si vota su una tematica legata all’agricoltura. Anche se la popolazione potrebbe mostrare simpatia per l’iniziativa, sostenuta – secondo il primo sondaggio – da una timida maggioranza del 51%, una parte preponderante dei Cantoni la respingerebbe. L’esperienza insegna che le iniziative partono sovente con il vento in poppa, ma alla fine perdono quota. In sostanza, l’iniziativa in questione vuole migliorare la tutela degli animali da reddito (bovini, polli o suini), ancorandola nella Costituzione. Intende inoltre vietare l’allevamento intensivo, dato che lederebbe sistematicamente il benessere degli animali.
Lanciata dall’organizzazione politica antispecista Sentience Politics, con sede a Basilea, l’iniziativa è sostenuta dalla Fondazione Franz Weber, da organizzazioni quali Greenpeace o Bio Suisse, nonché dai Verdi, dal PS e dai Verdi liberali. La Confederazione dovrebbe stabilire requisiti minimi più severi in fatto di cura rispettosa degli animali, di accesso agli spazi esterni, di macellazione e di numero massimo di capi per stalla, che tutte le aziende agricole sarebbero tenute a rispettare. I requisiti verrebbero applicati anche all’importazione di animali e prodotti animali, come pure di derrate alimentari con ingredienti di origine animale.
Il Consiglio federale rammenta che ciò comporterebbe la violazione di accordi con importanti partner commerciali e, a causa dei requisiti più elevati, il rincaro delle derrate alimentari e degli ingredienti di origine animale. L’iniziativa metterebbe in pericolo migliaia di posti di lavoro tra i fornitori di beni e di servizi, ma anche a livello di macellerie, mattatoi e mercanti di uova. Gli impieghi soppressi sarebbero da 4000 a 8000, stando a uno studio ordinato dall’Unione svizzera dei contadini. Inoltre, il divieto d’importazione per prodotti che non rispettano gli standard bio di allevamento, come chiede l’iniziativa, sarebbe molto oneroso da far rispettare e metterebbe la Svizzera in una situazione precaria nell’ambito degli accordi firmati con l’OMC o l’UE.
Non va inoltre dimenticato – come sottolinea il consigliere federale Alain Berset – che la Svizzera dispone di una legge sulla protezione degli animali fra le più severe al mondo. Sempre più animali da reddito vivono in stalle che rispondono alle loro esigenze e hanno regolarmente accesso a spazi esterni. Il loro benessere è dunque tutelato, indipendentemente dal numero di capi detenuti in un allevamento. Da questo profilo, per Consiglio federale e parlamento l’iniziativa è inutile.
Al di là degli aspetti etici legati alla tutela degli animali, l’obiettivo del testo in votazione è il consumo di carne in Svizzera, esagerato secondo i promotori dell’iniziativa. Per la consigliera nazionale ginevrina Delphine Klopfenstein (Verdi) si dovrebbe mangiare un terzo di carne in meno per raggiungere gli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi sul clima. Secondo i sostenitori dell’iniziativa, negli ultimi 20 anni, il numero degli animali detenuti a scopo agricolo è aumentato quasi della metà.
Circa il 50% dei terreni arabili serve alla produzione di foraggio per gli animali da ingrasso, invece che di generi alimentari. Occorre dunque un «cambiamento proteico», ciò che consentirebbe di fornire molto più nutrimento a base vegetale. I fautori ricordano che, oltre agli aspetti climatici, un consumo troppo importante di prodotti di origine animale può comportare malattie cardiovascolari, diabete e obesità.
Non solo in Svizzera, negli ultimi 30 anni, la maggioranza delle tenute agricole familiari ha ceduto lo spazio a grandi sfruttamenti intensivi. Il numero medio di animali per fattorie è dunque fortemente aumentato. Nel 2021 – affermano i sostenitori dell’iniziativa – sono stati ingrassati e macellati più di 80 milioni di animali. Vi sono aziende che detengono fino a 27’000 polli, 1500 maiali e 300 bovini. I loro bisogni fondamentali di spazio, movimento e attività vengono così sistematicamente ignorati.
Accettare l’iniziativa – secondo i suoi fautori – significherebbe pure mettere fine a un’incoerenza. Infatti, gran parte dei sussidi agricoli federali finiscono, attraverso i contadini, nelle tasche dei costruttori di stalle, fienili e strade, come pure in quelle dei produttori e venditori di pesticidi, di foraggi e di macchinari agricoli, sostiene la consigliera nazionale bernese Kathrin Bertschy (verde liberale). Per quest’ultima, in questo modo, «sovvenzioniamo la nostra distruzione dell’ambiente».
Per controbattere a questi attacchi, l’industria agro-alimentare mette in guardia i cittadini. Se accolta, l’iniziativa provocherebbe in Svizzera una riduzione netta del numero di animali e, di conseguenza, una diminuzione della produzione di carne, pari – secondo l’Unione svizzera delle arti e mestieri (USAM) – a circa il 50% per i maiali e fino all’80% per il pollame.
Secondo questi ambienti, sostenuti dalla destra e dal centro, la domanda di carne non diminuirebbe e, nel contempo, i prezzi degli alimenti di origine animale aumenterebbero dal 20 al 40 per cento, stando almeno a una valutazione della consigliera agli Stati lucernese Andrea Gmür (Alleanza del centro). Gli avversari dell’iniziativa rimproverano ai suoi fautori di «essersi allontanati dalla realtà» e di aver dimenticato l’attore principale: il contadino, che «si alza per nutrire la popolazione svizzera, che lavora e innova», stando alle affermazioni della consigliera agli Stati friburghese Johanna Gapany (PLR).
L’iniziativa «No all’allevamento intensivo» rispecchia l’ennesimo divario tra città e campagna in materia di agricoltura, il cui esito dovrebbe essere ancora una volta favorevole agli ambienti rurali. Dal 2017, il mondo contadino è sempre stato sostenuto dalla maggioranza popolare. Lo scorso anno, un po’ più di 6 votanti su 10 aveva bocciato due iniziative popolari provenienti da comitati di cittadini che chiedevano il divieto dei prodotti fitosanitari nell’agricoltura. Allora, il mondo agricolo aveva ribadito con successo che i due testi minacciavano le loro aziende.
Ora, la situazione si ripete con l’allevamento intensivo. Stando ai politologi, gli ambienti urbani hanno solitamente una visione idealista del mondo contadino e di ciò che dovrebbe essere. I contadini, invece, non sopportano l’idea che lo Stato dica loro quel che devono fare. Per decenni erano considerati una sorta di «vacca sacra» in Svizzera. Dagli anni 1990 e 2000, tutto ciò è cambiato, complice la liberalizzazione, gli accordi dell’OMC, l’onda verde e i sussidi della Confederazione.
Secondo il testo dell’iniziativa, in caso di «sì» il 25 settembre al divieto di allevamento intensivo, i contadini svizzeri avranno un periodo transitorio massimo di 25 anni per ottemperare alle nuove direttive. La legislazione d’applicazione dovrebbe tuttavia essere adottata entro 3 anni. Come detto, Berna dovrebbe fissare disposizioni concernenti l’allevamento, le cure e la macellazione rispettose degli animali, nonché il numero massimo di animali che possono stare insieme. L’iniziativa prevede pure di vietare le importazioni di animali e di prodotti di origine animale quando non sono in linea con le esigenze svizzere.
Per il Consiglio federale, l’iniziativa costringerebbe circa 3300 aziende agricole a diminuire l’effettivo di animali oppure ad aumentare le superfici aziendali. Secondo una stima commissionata dalla Confederazione, i costi supplementari totali per l’allevamento e gli investimenti per le superfici oscillerebbero tra 0,4 e 1,1 miliardi di franchi. Com’è lecito intuire, tenuto conto anche dell’inasprimento delle disposizioni d’importazione, l’onere rischia d’essere salato. Né va dimenticato che, visti anche i momenti di rincari energetici e il ritorno dell’inflazione, la gente vuole continuare a poter scegliere il cibo che desidera e a non pagarlo troppo caro, senza diktat.