Pensate al tempo che trascorrete davanti al vostro smartphone, curiosando fra post e followers, pensate a tutte quelle tecnologie digitali che, in un modo o nell’altro, gestiscono le nostre vite, in banca, nei trasporti, nella comunicazione, dai sistemi di guida autonoma agli algoritmi di riconoscimento facciale. Viviamo immersi in uno spazio ibrido, fatto di oggetti analogici e persone in carne e ossa, ma anche di oggetti virtuali e identità digitali, un mondo che ormai impone una riflessione sulle regole e i principi etici che lo governano: è il mondo onlife, neologismo coniato dal filosofo Luciano Floridi, professore di etica e filosofia dell’informazione a Oxford, nonché direttore del nuovo Center for Digital Ethics dell’Università di Bologna.
Floridi, autore di tanti libri di successo, ha il merito di aver sollevato, prima di altri, il tema dell’etica digitale, di essersi chiesto quali siano i principi che ci fanno dire che un’azione è buona, giusta e lecita nel mondo onlife. «Oggi – esordisce Floridi – la nostra società ha davanti a sé enormi questioni aperte nel settore della rivoluzione digitale, della trasformazione del nostro vivere comune come società dell’informazione in relazione, per esempio, all’etica della privacy o all’intelligenza artificiale. Alla fine degli ’80, ricordo che tutte le colleghe e i colleghi che facevano il mio lavoro, anche i professori, guardavano questi sviluppi senza alcun interesse. Un illustre professore mi disse che internet era solo una moda passeggera, di non occuparmene perché non aveva futuro. E io, con la resistenza tipica di chi è giovane e pensa di averla vista giusta, mi dicevo: se fai il filosofo, oggi, di cosa ti vuoi occupare se non di rivoluzione digitale?».
La storia gli ha dato ragione e Luciano Floridi è diventato uno dei punti di riferimento della riflessione etica e filosofica sul mondo digitale; un mondo in cui si è inoltrato come un esploratore, inventandosi pure il vocabolario: «Negli anni ’90, mi sono ritrovato a esplorare la rivoluzione digitale da un punto di vista concettuale ed etico senza avere la terminologia adatta. In quel periodo, coordinavo per l’Unione europea un importante programma sull’impatto del digitale sui cittadini e avevo bisogno di una parola chiave per identificare quel mondo in cui l’online e l’offline si mescolano in modo analogico e digitale. Un giorno, mentre stavo seduto su una panchina del mio college a Oxford, guardando il fiume, mi venne in mente la parola onlife, un’unica parola che mette insieme il mondo online, digitale, e quello analogico. Alla Commissione europea piacque moltissimo». Ancora oggi, il frutto di quel lavoro si può leggere in un volume edito da Springer, The Onlife Manifesto, scaricabile gratuitamente. Le parole sono importanti, ma, come chiosa Floridi, «servono solo a sintetizzare il pensiero, non a farlo camminare».
Oggi, la tecnologia digitale è così pervasiva che ha finito per modificare il mondo creandone uno nuovo, ibrido e iperconnesso, il frutto della cosiddetta quarta rivoluzione: ma come ci siamo arrivati? «È stato un passaggio graduale – risponde Floridi – forse la soglia è alla fine degli anni ’90, nel passaggio da Internet, tecnologia usata da accademici e militari per trasferire informazioni, al World Wide Web. Di lì a poco arrivano società come Amazon, Google e poi Facebook; il Web diventa l’habitat dove si sposta l’umanità, il luogo dove lavoriamo, studiamo, socializziamo, non più solo uno strumento di comunicazione, ma uno spazio da occupare. Questo passaggio si conclude con la mobilitazione del Web, cioè con la telefonia mobile. A quel punto ci sono centinaia di milioni di persone in tutto il mondo che possono avere accesso a quella che io chiamo infosfera».
Ma se parliamo di spazio, subentrano anche altre questioni: di chi è questo spazio? Chi lo controlla? Cosa posso e non posso fare? Prende campo così l’idea di un’etica digitale, un’etica nuova, che non cancella la riflessione fatta da Platone e Aristotele in avanti ma che, come spiega Floridi, la rinnova: «Fino a ieri pensavamo che solo gli esseri umani ed eventualmente gli animali potessero generare azioni con un impatto etico. Oggi, ci sono anche altre fonti che hanno capacità d’azione, per esempio i cosiddetti algoritmi d’intelligenza artificiale (AI), che non hanno nulla a che fare con l’intelligenza, e che possono fare del bene o del male. Questi agenti artificiali, pur non avendo doveri, hanno la capacità di condizionare la nostra vita, in modo diverso da un vulcano o un fiume, perché a differenza di questi ultimi, un algoritmo può “apprendere” da come opera e modificare il modo in cui lo fa. A questo punto abbiamo il minimo necessario per parlare di capacità di azione – agency in inglese – , e occorre un nuovo capitolo nel grande libro dell’etica».
Un capitolo che tenga in considerazione questi nuovi agenti etici, oltre a concetti, come quello di privacy, aggiornati alla sensibilità di oggi, e poi diritti, doveri e responsabilità: «La capacità che hanno questi algoritmi di adattarsi attraverso l’apprendimento mette in luce concetti come quello di autonomia e vincolo. L’autonomia è legata al fatto che un algoritmo, una volta programmato, via via che “mangia” sempre più dati, cambia il suo comportamento, finché si sgancia dal creatore e inizia un processo di auto-apprendimento. Questo concetto di autonomia è cruciale, l’abbiamo ereditato da Kant, ma qui è un’autonomia diversa da quella umana e va chiarita. C’è poi il vincolo: il robot che taglia l’erba e impara dove stanno le margherite non farà mai il caffè, perché ha quel vincolo all’interno del suo spazio di capacità di azione. È sulla progettazione e messa in opera di questi vincoli che dobbiamo lavorare, per evitare casi come quello dell’algoritmo di Google che scambiava gente di colore per gorilla. Oggi abbiamo abbastanza potenza di calcolo, dati e conoscenza per testare, prima dell’uso, questi algoritmi in silico, attraverso simulazioni».
Occorre, dunque, che l’etica trovi forma in un codice di regole dove siano chiare le responsabilità e a cui la tecnologia si pieghi. «Noi siamo fortunati perché viviamo in Europa – dice Floridi – e quando dico Europa mi riferisco al continente europeo, uno degli angoli più acculturati e ricchi del mondo, con un passato recente mostruoso, certo, ma che oggi sta dando a tutti i paesi un buon esempio di quadro legislativo sul fronte dei mercati e dei servizi digitali, dell’AI e della privacy con il regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR). Ma oltre a essere un esempio, è anche una sorta di invito robusto: l’Europa è un grande mercato, con una popolazione ad alto livello di formazione e grande capacità di spesa rispetto al resto del mondo, ovviamente le aziende devono essere in grado di operare in un tale mercato, e quindi non possono che adeguarsi alle regole del suo gioco: è quello che, dopo il successo di un recente libro, va sotto il nome di effetto Bruxelles. L’Europa è stata creata affinché non ci fosse più una guerra tra stati europei, e oggi, secondo me – conclude Luciano Floridi – sta cercando di muoversi su una seconda progettualità che non è quella della pax europea, ma della lex europea, dettando le condizioni per lo sviluppo del digitale e della società dell’informazione. In un mondo in cui il problema è sempre meno l’innovazione digitale e sempre più la sua governance, chi si trova in una posizione migliore non è chi produce la tecnologia, ma chi sa dirti come usarla».