Una scaloppina per tutti

by Claudia
2 Gennaio 2023

Gastronomia - Solo negli anni Cinquanta la carne smette di essere una pietanza riservata ai ricchi

La carne, per secoli, è sempre stata un lusso, cioè, una pietanza che poteva essere accessibile solo ai ricchi, o ai molto ricchi. Il resto della popolazione si nutriva di cereali, nella forma sia di polenta sia di pane, e il consumo era, ancora a metà Ottocento, di un chilo di pane a testa al giorno! Abbastanza per sopravvivere, non per essere in salute, data la scarsità di proteine e vitamine. Nonostante venisse arricchito ogni tanto con legumi (la carne dei poveri); ma davvero solo ogni tanto, ché a cuocere i legumi secchi ci voleva tanto combustibile, da sempre caro. La carne incomincia ad essere alla portata di molti, non di tutti, dopo la Prima Guerra Mondiale, per trasformarsi in un grande boom dagli anni Cinquanta in avanti. Non comunque nella ricettazione classica, ricca e complessa, ma in una versione nuova, più semplice, alla portata di ogni palato e portamonete.
Una ricetta si impone, le scaloppine. Non si sa con precisione quando siano nate, si sa però che – nei libri del tempo – i saltimbocca (ovvero le scaloppine arricchite) facevano parte delle «ricette di importazione», sebbene nessuno specifichi da dove. Sono quindi un patrimonio condiviso. Definiamole. Si tratta di un piatto composto da fettine di carne di vitello (o maiale, ma anche pollo e tacchino) ricavate dalla fesa o dalla noce, appiattite con il batticarne allo spessore di cinque millimetri per intenerirle, cotte in un grasso, aromatizzandole con «un qualcosa». Questa è la versione che ho conosciuto nella mia infanzia. Nella capitale italiana prese poi piede una versione locale, appunto i saltimbocca, anzi i salt’in bocca alla romana, dove venivano e vengono proposte coperte con una fettina di prosciutto crudo e salvia, fissati con uno stecchino, come fosse uno spillo. Altrove, altre versioni locali.
Sono sempre state considerate «cibo per bambini», e giustamente. Perché sono di fatto tenere – hai voglia, se batti una carne prima o poi diventa tenera –; perché veloci da fare; perché non hanno l’orrido bianco del grasso – allora odiato anche da me, mentre oggi se una carne non ha tanto saporito grasso non la considero –; e perché «moderne».
Erano considerate un piatto casalingo che di più non si può, anche se ovviamente moltissime trattorie lo proponevano, con successo.
Il grasso di cottura? Qui iniziano i problemi. A casa si utilizzava una forte tradizione lombarda: burro mescolato con olio d’oliva, quello base, non certo l’extravergine che peraltro allora non esisteva del tutto. Nel resto del paese, solo strutto od olio di oliva.
Altra questione importante da considerare è in quale modo arricchirle per ottenere un sughetto col quale poi fare scarpetta. Il canone era doppio. Ovviamente dovevano essere passate nella farina, altrimenti il sughetto non si addensava. Prevaleva la versione più classica, col solo succo di limone, anche se così guarnendo si doveva utilizzare più grasso. L’altra versione era con i piselli: un mix di proteine animali e vegetali davvero vincente. A volte si facevano con il Marsala: d’accordo eravamo bambini, ma allora si diceva che un po’ di alcol facesse bene. Di fatto, tenuto conto dell’evaporazione della parte alcolica del Marsala in cottura – l’alcol evapora prima della parte acquosa dei vini, che è poco meno del 90 per cento del vino – restava un piatto adatto anche ai più piccoli.
Molto raramente si faceva invece la cosiddetta versione bolognese. Con le scaloppine passate nell’uovo sbattuto, fritte, ricoperte con prosciutto e formaggio e finite in forno.