Arrampicarsi fino al Sass de la Scritüra

«Mio nonno quando ero piccolo mi ha regalato un agnellino. Chissà perché… Forse voleva che mi prendesse la passione per le bestie e facessi il pastore, come lui…».
Fiorenzo rimane un attimo come assorto, si passa una manona sulla barba ispida, spilla un bicchiere di rosso da un contenitore di Negroamaro posato sul tavolo e si accende una sigaretta. Poi mi fa, come a voler metter fine a una conversazione, che in realtà andrà avanti ancora per un paio d’ore, «l’ho tirato su bene, l’agnellino, è diventato una bella pecora e io un pastore. Come mio nonno. Non è una tradizione di famiglia – continua – mio padre ha fatto il boscaiolo per trent’anni in Francia. Mi ha portato là da ragazzino, ma lavorare con la legna non mi diceva niente. Ero destinato a un’altra strada. Ho preso tutto dal nonno e sono l’unico nipote ad aver seguito le sue tracce».
Osservo perplesso la brace del mozzicone, che tra poco, penso, gli brucerà le dita. Lui lo spegne e l’ultima boccata di fumo sale lenta avvolgendosi in bianche volute, attraversa un reticolo tremolante di ragnatele appese alle travi e s’infila tra gli interstizi del tetto della cascina. Fuori un sole da non crederci in quest’estate balorda e zuppa di pioggia un giorno sì un giorno no. È l’agosto del 2021. Da settimane mi sfianco sulle montagne calanchine con l’amico fotografo Roberto Buzzini, raccogliendo materiali per un libro sul Sentiero alpino Calanca1.
La cascina dell’alpe Calvaresc de Sora, a 2131 metri di quota sopra Rossa, se ne sta lì acquattata su un pianoro erboso, poco sotto il famoso lago del cuore. È una costruzione in sasso, piuttosto spartana, con un focolare aperto, pacchi di riso e pasta, bottiglie e altre vettovaglie appoggiate in un angolo e un giaciglio sospeso su lunghe gambe di legno. Primordiale, ma sempre meglio della tenda o delle notti passate sotto le stelle, estate e inverno, a cui è abituato Fiorenzo.
Fiorenzo Zenoni viene dalla Val Seriana, in provincia di Bergamo. È un omone massiccio, con una zazzera riccioluta e la fronte disegnata da un ghirigoro di rughe, come quei vecchi larici sferzati dalle intemperie che si incontrano quassù. Fa il pastore da una vita e guida le greggi sui pascoli di Grigioni, Ticino e altri sperduti angoli della Svizzera. «Adesso ho qui settecento pecore – mi dice – non sono mie ma di uno zurighese».
Dopo gli alpi di Pindeira e Lughezzòn, in territorio di Soazza, ha scavalcato la Bocchetta de Calvaresc, da dove il gregge è sciamato sul versante sinistro della Calanca come una valanga lanosa, che si è poi sciolta nelle centinaia di macchioline bianche ora intente a ruminare lassù, in alto, tra i dirupi.
Se non per la famiglia di Fiorenzo, quello del pastore è un mestiere tramandato di generazione in generazione tra la gente della sua terra, che lo ha fatto sì per motivi economici, ma anche per un profondo senso di identificazione nella professione e nelle sue tradizioni.
A partire dal dodicesimo secolo i pastori bergamaschi, di fronte alla scarsità di pascoli locali, iniziano a praticare una transumanza a lungo raggio. S’incamminano a tarda primavera, attraversano le Alpi Orobie, scendono in Valtellina e Val Chiavenna, superano valichi e bocchette d’alta quota e portano le loro pecore sugli alpeggi engadinesi e nelle vallate del Grigioni italiano. Una vera e propria invasione ovina verrebbe da dire, a giudicare dai numeri: oltre centomila le pecore che pascolano a quei tempi nei Grigioni, almeno diecimila in Mesolcina e Calanca.
Con il forte incremento delle bocche da sfamare nelle città del nord Italia, sempre più popolose a partire dall’anno Mille, i terreni sfruttati dalla pastorizia sulla Pianura Padana sono dissodati per la coltivazione dei cereali. Allo stesso tempo sugli alpeggi lombardi il bestiame bovino prende il posto delle pecore e i pastori si vedono costretti a questi interminabili vagabondaggi in cerca di nuovi pascoli.
Ma come mai si spingono fin nella remota valle Calanca? Ce lo spiega, a saperla interpretare, l’architettura delle sue montagne, per usare un termine caro a Élisée Reclus, geografo e libertario francese dell’Ottocento2. Buona parte del territorio della sponda sinistra della valle appare infatti piuttosto impervia e inadatta ai bovini e così i Comuni affittano ai pastori bergamaschi gli alpeggi più discosti e inutilizzati e prelevano una tassa per ogni animale. Inoltre la presenza di vari collegamenti trasversali, conosciuti e utilizzati fin dall’antichità, tra la Lombardia e la Mesolcina e tra quest’ultima e la Calanca, rende relativamente «facile» la transumanza delle greggi tra il sud e il nord o perlomeno ne accorcia il viaggio.
Una transumanza, quella dei pastori bergamaschi e le loro pecore, praticata per secoli nonostante il decreto del 1491 che proibisce ai forestieri di caricare gli alpi di Mesolcina e Calanca, e che sarà interrotta solo nel 1914 a causa di un’epidemia del bestiame3.
I «Bèrgum» continueranno però a frequentare queste montagne a loro familiari non più con le loro greggi, ma come custodi di quelle altrui.
«Venivano a causa della fame – sbotta Fiorenzo – erano anni di magra. Qualche pastore l’ho conosciuto, di persona o attraverso il racconto di figli e nipoti».
S’interrompe per salutare alcuni escursionisti diretti alla capanna Buffalora, poi riprende. «Una volta una donna ha partorito sua figlia sulle creste, mentre stavano facendo il passo. Forse la figlia c’è ancora, avrebbe sui novant’anni. Erano in diciassette fra sorelle e fratelli. Ho trovato anche dei nomi e delle date su qualche cascina. E poi c’è il Sass de la Scritüra. Lo conosci?». Sì, faccio io, e ripenso a quell’interminabile camminata di un giorno di settembre dell’anno prima.
Lassù, nell’estremo lembo della Calanca, all’imbocco del grande anfiteatro dove la valle e il suo fiume nascono, generati dagli impressionanti bastioni rocciosi dello Zapporthorn, del Pizzo de Stabi e del Puntone dei Fraciòn, incorniciato da un tappeto di erbe lucenti pettinate dal vento e un po’ nascosto da arbusti d’ontano, c’è un affioramento di pietra ollare. Verdegrigio scuro, con evanescenti riflessi azzurri, come altri che si incontrano sulle Alpi. Questo però è diverso e sorprendente. Ha lo straordinario potere di essere una «roccia parlante», che racconta oltre tre secoli di storia della pastorizia su queste montagne. E lo fa con decine di date (la più vecchia è del 1656) e di nomi incisi dai pastori, la cui origine bergamasca appare subito chiara. Si chiamano Cominelli, Cossali, Imberti, cognomi molto diffusi nei paesi della Val Seriana.
Mi par di vederli, mentre se ne stanno lì seduti di fianco alla grande roccia, ogni tanto danno un’occhiata alle pecore aggrappate ai ripidi pascoli, mangiano un boccone, se sono più di uno, forse, giocano alla morra, picchiando i pugni sull’erba e gridando a squarciagola i numeri, la cui eco distorta rimbalza da un versante all’altro della valle. Se uno è solo, magari, sfila un coltellaccio dalla cinta e incomincia pian piano a incidere la pietra morbida con la punta affilata per lasciare un segno del suo passaggio e del suo esistere, come a voler esorcizzare la sconfinata solitudine che altrimenti potrebbe carpirgli l’anima.
Non si concede facilmente e non a tutti, il Sass de la Scritüra, perso in uno degli angoli più remoti della valle. Si erge proprio lì, poco sopra i duemila metri di quota, accanto all’impalpabile linea di confine, che separa il territorio di Mesocco da quello di Rossa, incuneata nel canalone che scende dalla cima del Rodond e va a gettarsi nella Calancasca. È un mondo a sé, questo, riservato a camminatori esperti, con gambe buone, un altrettanto buon senso dell’orientamento in montagna e un equipaggiamento adatto alle alte quote.
Ricordo il giorno di settembre in cui ci sono stato, con Roberto. Un’aria limpida da ferirti gli occhi, il cielo una tovaglia azzurra senza un ricamo di nuvole, su cui si stagliano la corona chiara di creste e l’alternarsi di vette, molte oltre i Tremila. Dopo Valbella, l’ultimo nucleo della Calanca, con le sue cascine ordinate che si animano nella bella stagione, si penetra nel cuore più selvaggio della valle, dove sembra impossibile incontrare anima viva. Il fiume spumeggiante scorre impetuoso, ritagliandosi un passaggio tra una congerie di enormi macigni levigati dalle sue acque e dal rotolare nelle piene. Poco sotto l’Alp de Alögna, l’alveo si allarga, la Calancasca sembra tirare un sospiro di sollievo, ma è solo un’impressione, subito smorzata alla vista del caos rabbioso di depositi alluvionali, da cui sbucano enormi tronchi divelti, con un garbuglio di radici che si allungano verso il cielo come braccia scheletriche.
Il paesaggio, affogato in un pozzo d’ombra, ha un fascino inquietante. Riemergiamo nel sole imboccando la Val di Passìt, antico collegamento trasversale tra la Calanca e San Bernardino, un tempo utilizzato dagli emigranti che lasciavano la valle in cerca di miglior fortuna. Dopo pochi passi, però, dobbiamo abbandonare il sentiero e prendere una traccia che sale infilandosi nel Bosch del Mina per poi continuare in un lungo falsopiano fin sotto l’Alp Rodond. Laggiù in fondo a tratti s’intravvede il fiume, la cui voce è ormai un lontano mormorio. Sul lato opposto della valle, meno scosceso e striato dalla schiuma di innumerevoli ruscelli, le cascine e i pascoli dell’Alp de Revi, invasi sempre più dal bosco, con una sparuta mandria di mucche, che brucano sotto giovani larici.
Con uno strappo che toglie il fiato, il sentiero si alza lungo una cengia e sbuca sull’Alp Rodond. Da qui in avanti bisogna farsi segugi, con il naso a fiutare tra le erbe e le pietre in cerca di un segno di passaggio, un vecchio solco ricoperto da macchie di erica e ginepro nano o il minuscolo cerchio blu, che qualcuno ha dipinto qua e là sui sassi. Dopo una lunga traversata del terrazzo panoramico, che si apre su un paesaggio di selvaggia bellezza, ritroviamo un sentierino che va giù, scivoloso, nel canalone ingombro di alte felci e arbusti di ontano, lo risale per qualche metro per poi scorrere in bilico su una cornice d’erba. Ed eccolo lì, il Sass de la Scritüra. Quasi quasi non lo vedo, concentrato come sono su dove poso i piedi.
Forse è un bene, che si trovi in questo posto sperduto, che lo preserva dai mali del mondo, conservandolo come una preziosa testimonianza di vita passata.
«L’idea rimane quella di garantire un approccio rispettoso a questo oggetto», mi risponde Giulia Pedrazzi, vicedirettrice del candidato Parco regionale Val Calanca, a cui ho chiesto se è loro intenzione proporre visite guidate. «Non so se lo faremo, ma ciò che vogliamo è assicurare un buon equilibrio tra promozione e tutela di un luogo, che sia questo o altri che ci sono in valle».
Affinché, aggiungo io prendendo in prestito le parole dell’abate Kasimir von Haeffelin, il nostro andare in montagna «rassomigli al volo degli uccelli di passo, che tagliano l’aria con le loro ali leggere e non lasciano traccia alcuna del loro tragitto»4.

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