Per come abbiamo avuto finora modo di vedere, la pratica fotografica sembrerebbe sorretta da una somma poderosa di regole tecniche, leggi ottiche e chimiche, procedure operative eccetera. Insomma, da una collezione di indicazioni prescrittive che, a modo loro – seguendole pedissequamente – determineranno, restringendolo, il nostro campo d’azione. Aggiungiamo, a questo insieme di norme, anche i canoni estetici che danno forma al nostro immaginario collettivo, e che hanno un peso nel farci scegliere cosa e soprattutto come fotografare: dopo lo scatto, sulla base di tutti questi dettami, decideremo cosa ci è riuscito e cos’altro no, quali sono le foto utili o interessanti e quali quelle da scartare.
In realtà, il campo del fotografico – per nostra fortuna – non si limita a quanto realizzato seguendo quei criteri. Di sicuro ci è già capitato più volte di riscontrare come, nel corso della nostra pratica, s’insinuino con una certa frequenza errori, grandi o piccoli che siano e di varia natura – dettati da vari fattori. Il digitale ci permette di verificare sul momento quanto stiamo facendo, di modo che facilmente andremo a porre rimedio. Ed è probabile che non staremo a valutare troppo attentamente, lo scatto «sbagliato» in base alle regole di cui dicevamo all’inizio. Irrimediabilmente sovraesposto o sottoesposto, mosso, sfuocato, mal inquadrato o che altro, quello scatto lo posteggeremo in fretta nel limbo dell’inutilizzabile per poi inabissarlo nelle profondità senza ritorno del cestino digitale.
Errori d’ordine accidentale, dovuti a una mancanza d’attenzione, a troppa fretta, al dispositivo di ripresa difettoso o mal sfruttato, o a una semplice insufficienza tecnica possono invece rivelarci, quando attentamente osservate, immagini d’inaspettata bellezza e valore. Non dimentichiamo che da sempre l’errore ha avuto una funzione importante nel disegnare i percorsi conoscitivi nei vari ambiti d’azione dell’uomo. Grazie all’errore abbiamo potuto scoprire cose altrimenti inimmaginabili e pertanto inaccessibili se ci fossimo mossi solo in ordine al risultato cercato. Da ciò, la fotografia non è sfuggita. Nel corso della sua storia, si è inevitabilmente piegata a quella medesima logica: che fosse per i materiali come pure per le tecniche, tante innovazioni si sono concretizzate proprio grazie al prezioso intervento dell’errore e del caso.
Vi è però un’altra categoria di errori, che a noi qui interessa più particolarmente, ed è quella che possiamo definire degli errori a carattere volontario. Non sempre o necessariamente distinguibili da quelli accidentali, gli «errori» causati o ricercati dal fotografo stesso incarnano una strategia che mira a una messa in questione, quando non al sovvertimento, dei princìpi estetici che guidano la nostra pratica. Pur essendo frutto di percorsi creativi individuali, queste strategie acquistano maggior senso inscrivendole e osservandole in una prospettiva storica di più ampio raggio, che coinvolge tanto la storia del nostro media quanto pure quella dell’arte e della cultura più in generale.
La fotografia, che per tutto l’Ottocento è stata fortemente condizionata dalla pittura, riesce da quella a emanciparsi con l’emergere delle avanguardie storiche d’inizio Novecento. Il Surrealismo, in particolare, ebbe il merito di rivelarci con quale efficacia la fotografia fosse in grado di mettere in luce quelle faglie celate nell’ordine razionale della realtà. E ciò, proprio in gran parte sfruttando gli aspetti fortuiti o considerati errati dalla scienza fotografica più ortodossa.
Esposizioni multiple, errori in fase di sviluppo e di stampa, scatti accidentali, immagini mosse, distorte, capovolte, con aberrazioni ottiche, attraversate da riflessi, da elementi estranei, vennero accolti a braccia aperte dall’estetica del Surrealismo per la loro facoltà di stimolare nello spettatore uno sguardo capace di andare oltre la stretta realtà registrata. L’immagine fotografica diveniva una porta d’accesso alla libera esplorazione di spazi densi di stimoli d’ordine psichico, onirico e poetico, oltrepassando così il suo ruolo funzionale e descrittivo fino ad allora preminentemente incarnato. Stava al fotografo trovare e adottare le strategie operative che facilitassero l’insinuarsi del fortunato caso nel suo agire.
Sempre nel contesto delle avanguardie storiche – le cui ricerche e scoperte, come è pure il caso dell’approccio appena sopra descritto, continuano a riverberarsi nella produzione della fotografia contemporanea – vi è stata un’indagine più sperimentale dell’errore, portata a evidenziare gli elementi costitutivi del media fotografico. In quest’ottica, l’errore – o meglio, ciò che generalmente viene identificato come tale – ci indica le zone più periferiche dello spazio fotografico.
Il lavoro di decostruzione effettuato con l’esplorazione di queste zone permette di evidenziare il fatto che la fotografia non sia di per sé un oggetto neutro, volto ad accogliere passivamente il reale, ma che semmai costituisca un complesso apparato semantico: dietro a ogni immagine stanno dei materiali, con le loro peculiarità, dei dispositivi tecnici e linguistici, una storia del media e soprattutto qualcuno che su tutto questo scientemente agisce e qualcun altro che in seguito, in base ai suoi personali criteri, ne interpreterà gli esiti.
Senza voler dimenticare che la pertinenza di questo discorso dipende anche dall’ambito in cui si opera e dalle esigenze di accuratezza che questi richiede, possiamo cominciare a capire perché, da un punto di vista generale, ciò che interpretavamo come «errore», alla fin dei conti, non è altro che il frutto di una delimitazione storica, e di conseguenza in continua evoluzione, del campo del plausibile. E che dunque, l’atto fotografico in realtà offre prospettive d’azione che oltrepassano di gran lunga quanto solitamente tendiamo a prestargli. Restando nello stretto ambito del fotografico, l’esplorazione programmatica di quegli spazi al di là della norma, rappresenta una sfida non meno importante e fruttuosa, e soprattutto plausibile, di quelle offerte dai percorsi più canonici.