«Il cinema svizzero? È come la nazionale di calcio: più aperto di quel che si pensa»

by Claudia
16 Gennaio 2023

Niccolò Castelli racconta le sue prime Giornate del cinema di Soletta da direttore

Regista di film come Tutti giù e Atlas (in onda domani sera su LA2 alle 21:05) che hanno contribuito all’affermazione del cinema svizzero italiano, direttore della Ticino Film Commission e ora alla guida delle Giornate cinematografiche di Soletta, Niccolò Castelli è il primo ticinese chiamato a dirigere la storica rassegna nazionale che inaugura mercoledì la 58esima edizione (tutto il programma della manifestazione in calendario fino al 25 gennaio è disponibile sul sito www.solothurnerfilmtage.ch).
Non è frequente che un regista passi a dirigere un festival anche se ci sono precedenti illustri, da Lizzani e Pontecorvo a Venezia o Moretti, Amelio e Virzì a Torino. Abbiamo dunque colto l’occasione per chiedere a Niccolò Castelli di raccontarci le sue emozioni e presentare la settimana di visioni.
Due anni fa inaugurava le Giornate con Atlas e ora si appresta a inaugurarle da direttore. Come si sente?
È stato un grande onore e lo è anche questa volta. Presentare, allora, un film in italiano che rappresentasse il cinema svizzero è stata una grande opportunità e una responsabilità per tutti quelli che ai tempi ci hanno lavorato. Ora mi sento un regista prestato a fare un film di una settimana con i film degli altri.
Avete ricevuto più di 600 lavori, come li avete selezionati? Nel programma si notano molti nomi nuovi.
Tra i 600 ci sono anche videoclip e corti e 150 lungometraggi. Chi non era riuscito a finirli per la pandemia li ha mandati ora. I giorni a disposizione e le sale sono quelli, abbiamo dovuto dire tanti no. Soletta è una vetrina, ma una vetrina curata, abbiamo fatto scelte, selezionato un cinema svizzero che mette le dita nelle ferite, tocca cose attuali, come guerra, gender o clima. Ci sono tanti film di giovani autori molto forti a livello stilistico, anche nella finzione.
Oltre alle tradizionali tre aree linguistiche, si notano sempre più registi di origine straniera.
Il cinema svizzero è come la nazionale di calcio, con tanti registi e registe originari di altri Paesi, gente che ha già il mondo in casa. Abbiamo sempre più immigrati di seconda generazione che vanno alla ricerca delle loro origini e della loro identità, dei loro parenti, delle persone scomparse nelle fosse comuni nei Balcani. L’identità svizzera non è più fatta di tre o quattro culture, ma è molto più complessa.
Passando da regista a direttore di festival ha scoperto qualcosa di nuovo?
Ho visto un cinema più giovane di me, che mi ha sorpreso, gente con meno anni e prospettive diverse. Il cinema svizzero è più aperto sul mondo di quel che si pensa, ha piede in Europa e altrove. Ho vissuto il piacere della scoperta e della ricerca di un certo tipo di narrazione che parla della vita e mi sono reso conto delle tante sensibilità presenti. E anche la varietà di coproduzioni, non solo con la Francia, la Germania o l’Italia, ma anche con la Polonia, il Belgio, i Balcani. Conoscevo meno gli attori del resto della Svizzera, di lingua tedesca o francese, e sono stati una bella scoperta.
Soprattutto alla guida della Film Commission si era impegnato per trovare spazio e visibilità per il cinema ticinese. Ora che è dall’altra parte cosa ne pensa?
Il Ticino ha i mezzi per giocare un ruolo e fare la sua parte. Negli ultimi anni ha compiuto tanti passi avanti. È una minoranza, ma deve farsi vedere, alzare il livello e non avere complessi di inferiorità. A Soletta rappresento anche la Svizzera italiana, ricordo che esiste. Ci siamo accorti che rispetto ad anni passati ci sono curiosamente meno film in italiano, però la produzione ticinese è varia, con ben 14 lungometraggi legati al Ticino, comprese coproduzioni con il Canada o il documentario su Douglas Sirk del tedesco Roman Hüben. Ci hanno molto impressionato i tanti corti di giovanissimi autori ticinesi, film sperimentali o di ricerca, anche indipendenti: ne abbiamo selezionati dieci.
E poi c’è Giacometti di Susanna Fanzun.
Mi ha fatto molto piacere vedere il documentario sui Giacometti, non nascondo il mio amore per la Bregaglia e Maloja. Parla di Bregaglia come un luogo che in modo misterioso ha dato i natali a tanta arte con la sua luce unica. Seguo Susanna dai suoi primi lavori, ha raccontato tre generazioni di artisti con immagini spettacolari e anche parti di finzione.
C’è un film che sorprenderà durante le Giornate o che catturerà il pubblico?
Sicuramente a un certo tipo di pubblico piacerà Giacometti, come già Giovanni Segantini – Magie des Lichts di Labhart. Credo che siamo stati coraggiosi a mettere in competizione The Curse di Maria Kaur Bedi, un documentario quasi sperimentale che parla di dipendenza dall’alcol. E poi due film legati ai Balcani, The Land Within e The Deny of Dignity.
È stato un anno di scomparse eccellenti per il cinema svizzero.
Infatti, non si potevamo non omaggiare Alain Tanner e Jean-Luc Godard, che hanno avuto un ruolo fondamentale, e Michael Sauter, sceneggiatore del cinema popolare degli anni 2000.
La principale novità sembra il maggiore spazio dedicato agli incontri.
Sì, il ruolo dei festival è cambiato. Una volta andavi a vedere film che non avresti più recuperato, ora si possono recuperare sulle piattaforme. E diventano importanti gli scambi tra gli spettatori, chi fa cinema e le istituzioni.