Una «maggiorata» per rinascere

Certo che parlare di Gina Lollobrigida, morta la settimana scorsa, non è facile, perché la donna di spettacolo degli anni 50, almeno in Italia, era davvero donna da fantasie maschiliste o semmai puro cliché da fotoromanzo ormai decisamente fuori tempo. Si usciva dalla guerra e, come ha scritto sul «Foglio» Alberto Mattioli (5½), dopo tanta povertà e sciagura si imponeva l’ideale dell’abbondanza, anche fisica, carnale: così l’edizione 1947 di Miss Italia fu il trionfo delle forme femminili. In un colpo solo balzarono sulla scena Lucia Bosè, Gianna Maria Canale, Eleonora Rossi Drago, Silvana Mangano e la ventenne Gina Lollobrigida. Ha detto Natalia Aspesi sulla «Repubblica» cose che solo Natalia Aspesi (6-) può permettersi di dire sulle donne: «Eravamo tutte brutte per la fame e malvestite per la guerra, ma Miss Italia scoprì che esistevano ragazze bellissime come forse non ce ne sarebbero state più». Vinse Bosè, Gina arrivò terza, ma fu tutt’altro che una sconfitta. Sarebbe stata lei, con Sofia Loren, a incarnare la bellezza italiana nel mondo creando una delle leggendarie rivalità tipo Coppi-Bartali, Tebaldi-Callas, Mazzola-Rivera.
Quel tipo di bellezza sarà pure una qualità superficiale finché si vuole e oggi può anche far sorridere i cultori del senno di poi, ma era allora il «desiderio di rinascere» (l’ha fatto notare Walter Veltroni a proposito di Gina Lollobrigida), era la luce che contrastava l’orrore cupo della guerra appena vissuta. Era allegria e speranza. Nel novembre 1957, Carlo Emilio Gadda, spaesato dall’imprevisto successo del Pasticciaccio, scriveva a un amico: «Sono diventato una specie di Lollobrigido, di Sofio Loren, senza avere i doni delle due impareggiabili campionesse». Notare la successione: prima la Lollo e poi Sofia. Fatto sta che le «impareggiabili campionesse» avevano per Gadda «doti» certo non morali. Marcello Marchesi (5½ tendente al 6) definì la Lollobrigida, lanciata verso Hollywood, «il petto atlantico». Per lei fu inventato un sostantivo che sarebbe passato alla storia: la «maggiorata», neologismo che divenne famoso sulla bocca di Vittorio De Sica in un episodio del film di Blasetti Altri tempi. Nelle vesti di un avvocato-trombone dalla ampollosa retorica vecchio stampo, durante l’arringa, mostrando ai giudici (maschi) la scollatura vertiginosa dell’imputata (la Lollo), De Sica (5+ tendente al 5½) urla con enfasi: «Se la legge prevede l’assoluzione dei minorati psichici, perché non dovrebbe essere assolta una maggiorata fisica!?». Era il 1952 e l’anno dopo sarebbe arrivata a cavallo di un asino una giovane campagnola detta la Bersagliera, in Pane amore e fantasia di Luigi Comencini (6-), liquidazione del neorealismo verso la commedia all’italiana. Un’interpretazione, quella della Lollo, che le stava addosso «come un vestito su misura», «talmente bella da suscitare indignazione». Fu Italo Calvino a vederla, in quella parte, come una «pastorella d’Arcadia», ancora dentro tutti i cliché della popolana superba e impertinente. In realtà, Lollobrigida non era affatto di estrazione popolare, essendo figlia della buona borghesia imprenditoriale romana caduta in disgrazia durante la guerra per via dei bombardamenti. Riuscì a iscriversi all’Accademia delle Belle Arti con la passione della scultura e del canto, e l’arte – con la fotografia – rimarrà l’attività della vecchiaia.
Il talento e l’intelligenza della diva, acclamata ovunque dalle folle in delirio e osannata anche all’estero, passavano, allora, in secondo piano: contavano di più gli amori e i flirt reali e presunti, nazionali e internazionali (Fidel Castro, Barnard…). «Il suo viso – ha osservato Alberto Moravia nel 1953 – non è mai vuoto, mai inerte», e ne lodava, a proposito de La provinciale, il «carattere sentimentale, ingenuo e al tempo stesso indispettito, infatuato e sensuale». Ma il carattere della Lollo non era solo sentimentale, se è vero che scatenò uno scandalo quando ruppe il contratto con Michelangelo Antonioni per La signora delle camelie, sentendosi offesa dal suo ruolo nel film. Ci volle Italo Calvino per dare (quasi) totale dignità all’attrice al di là di ogni stereotipo. Infatti, nel settembre 1954, recensendo La romana, il film di Luigi Zampa tratto dal romanzo di Moravia, riservò alla Lollo notevoli parole di elogio, riconoscendo alla donna «una presa di coscienza risentita e generosa». Era un complimento che tradiva però una sorta di stupore. Aspesi: «Erano decenni primitivi, ancora fascisti nel giudizio sulle donne: o eri bella e scema o eri intelligente e brutta…». Le due qualità insieme venivano considerate molto rare.
E oggi? Siamo sicuri che quel tempo sia del tutto passato?

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