Lo scandalo delle camminatrici solitarie

In un’ipotetica storia del tempo libero, la passeggiata potrebbe tranquillamente figurare come parte di un capitolo, magari inserita in una riflessione più ampia sul camminare, oppure messa in relazione con l’ozio, con cui condivide alcune caratteristiche pur essendo un’attività che si definisce attraverso il movimento. Poi, però, occorrerebbe aggiungere che ci sono modi diversi di passeggiare, alcuni forse più interessanti di altri. C’è chi, per esempio, fa del passeggio una sorta di hobby, trasformandolo in uno stile di vita. È il caso del flâneur, termine francese reso popolare dal poeta Charles Baudelaire nel XIX secolo e poi rilanciato dal filosofo tedesco Walter Benjamin nel XX secolo. In italiano il termine flâneur non ha un corrispettivo preciso, ma può essere indicato da un ventaglio di termini che va da «passeggiatore» – una traduzione piuttosto neutra –, a «perdigiorno», un termine che rimanda alla sostanziale assenza di vincoli e di quelli che oggi chiameremmo impegni inderogabili. Con Baudelaire e Benjamin il flâneur è inestricabilmente legato alla modernità e il suo habitat naturale è la città, in modo particolare Parigi.
Per condensarlo in un identikit, potremmo dire che il flâneur è una sorta di sfaccendato che bighellona per le vie della città, mimetizzandosi nel tessuto urbano in cui si immerge e di cui assorbe l’atmosfera, mentre esplora le emozioni e gli stati d’animo suscitati dal paesaggio. Così come ogni termine porta dentro la storia che ha attraversato, anche il termine flâneur non fa eccezione. È dunque più che legittimo interrogarsi circa il contesto socio-culturale in cui questa parola è nata e si è sviluppata, e chiedersi come mai il corrispettivo femminile flâneuse non abbia mai veramente preso piede. Ciò non significa, ovviamente, che non sia possibile identificare donne che si siano dedicate al passeggio ozioso ed esplorativo. Di converso, è lecito supporre che accanto alla celebrata e popolare storia del flâneur esista, in modo forse neanche tanto marginale, una storia della flâneuse. A scriverla ci ha pensato Lauren Elkin nel saggio intitolato Flâneuse. Donne che camminano per la città (v. «Azione» del 7.11.22). Elkin ci racconta di alcune artiste che, attraverso discipline come la letteratura, la fotografia, e il cinema, hanno lasciato una testimonianza del loro vagabondare cittadino.
Ricostruendo una sorta di genealogia di alcune passeggiatrici illustri che include George Sand, Virginia Woolf, Martha Gellhorn, Jinx Allen, e Agnès Varda, la Elkin dedica ampio spazio anche alla nota artista francese Sophie Calle, nata nel 1953 a Parigi. Negli anni Novanta del secolo scorso, lo scrittore americano Paul Auster fu talmente intrigato da Sophie Calle che si ispirò a lei per creare Maria Turner, uno dei personaggi centrali del romanzo Leviatano (1992): «Maria era un’artista, ma la sua attività non aveva nulla a che vedere con la creazione di oggetti comunemente definiti artistici. Secondo alcuni era una fotografa, secondo altri una concettualista, mentre altri ancora la consideravano una scrittrice, ma nessuna di queste definizioni era esatta, e alla fine non credo che si presti a essere etichettata in alcuna maniera».
La caratterizzazione di Maria Turner, quel suo approccio inclassificabile alla pratica dell’arte, ricalca bene lo stile di Sophie Calle, un’esploratrice sui generis a cui piace – proprio come a Maria Turner – rendere fluido, poroso e permeabile il confine fra la vita e l’arte, fra la quotidianità e la finzione.
Racconta Auster che, per una delle sue opere, Maria «assunse un investigatore privato per farsi seguire per la città. Per diversi giorni l’uomo le scattò delle fotografie mentre faceva i suoi giri, annotando i suoi movimenti in un piccolo taccuino, senza tralasciare nulla, neanche gli episodi più banali e transitori». Anche in questo caso, il riferimento è l’azione artistica di Sophie Calle che, oltre ad assoldare un investigatore per seguirla, rovescia il rapporto osservatore-osservato: mettendosi nei panni del detective inizia a seguire degli sconosciuti, a fotografarli, ricostruendone i movimenti: raccogliendo tracce, frammenti, rubando dettagli delle loro vite. In altri casi ancora, Marie e Sophie fanno la stessa cosa, si confondono, si completano e si arricchiscono. Un giorno, per esempio, trovano un’agenda anonima per strada, e decidono di rintracciare le persone che vi figurano proponendo loro delle interviste personali.
Se, come ci avverte Paul Auster, Maria/Sophie non era propriamente una fotografa, e neppure una scrittrice o una concettualista, che cosa era allora? Forse era tutte queste cose, e magari qualcosa in più. Una flâneuse, per esempio: in quanto tale, Calle accumula e mette assieme diverse discipline che si integrano alla perfezione al suo girovagare artistico. E se oggi è sicuramente più facile immaginare una flâneuse che passeggia liberamente per le vie cittadine, la storia ci insegna che non sempre è stato così. Nel 1897, per esempio, la scrittrice ucraina Marie Bashkirtseff annotava, nel suo diario, quanto segue: «desidero ardentemente uscire da sola: andare, venire, sedere su una panchina al Jardin des Tuileries, e soprattutto di andare al Luxembourg, guardare le vetrine decorate dei negozi, entrare in chiese e musei, e passeggiare di sera per le vecchie strade. Ecco cosa invidio». Erano tempi in cui una donna che usciva da sola passeggiando liberamente era mal vista, e suscitava lo scandalo nei benpensanti.
Ciononostante, l’arte della flânerie al femminile non solo è resistita nel tempo, ma si è tramandata lungo una precisa linea genealogica che, idealmente, culmina con Sophie Calle e le sue contemporanee. Ma, a prescindere dalle loro evoluzioni e involuzioni nel tempo, le figure femminili che la Elkin ritrae nel suo libro sono comunque unite da «molte corrispondenze; tutte queste donne leggevano libri di altre donne e imparavano l’una dall’altra, e le loro letture si espandevano sempre di più in una rete così fitta da non poter essere catalogata». Per questo, continua l’autrice, «flâneuse non è semplicemente il femminile di flâneur, ma una figura di riferimento, alla quale ispirarsi, una figura indipendente (…). È un individuo determinato, pieno di risorse e profondamente in sintonia con il potenziale creativo della città, e con le possibilità liberatorie di una bella passeggiata». Rivendicando la sua libertà di movimento, conclude la Elkin, «la flâneuse esiste ogniqualvolta deviamo dalla strada che è stata tracciata per noi, partendo alla ricerca di un territorio nostro».

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