Quello che nella prima edizione dell’Origine delle specie, unica illustrazione dell’opera, sarebbe diventato l’albero della vita, nei taccuini di Darwin era ancora un corallo: «Forse – annotava Darwin – l’albero della vita dovrebbe essere chiamato corallo della vita, giacché la base delle ramificazioni è morta».
Presente in molte culture per indicare il rinnovamento dell’essere, la similitudine dell’albero della vita era ben presente sia nella tradizione cristiana, così come in quella ebraica. Darwin la fece propria in quanto immagine, rigirandola però come un guanto; il «diagramma della divergenza» mostrava linee evolutive che attraversavano il tempo dal basso verso l’alto, di tanto in tanto divergendo – a significare che specie distinte avevano un comune antenato.
Dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, fu questo diagramma che s’impose come «albero della vita»: «L’immagine dell’albero sarebbe rimasta fino alla fine del ventesimo secolo la miglior rappresentazione grafica della storia della vita, del corso dell’evoluzione, delle origini della diversità e dell’adattamento», così scrive David Quammen nel suo L’albero intricato.
Nelle pagine di L’albero intricato, Quammen ha intrecciato due storie: quella della rappresentazione dell’evoluzione per mezzo dell’immagine di un albero – oggi diventata una selva cespugliosa; e la storia del biologo statunitense Carl Woese, al quale si deve la prima applicazione della filogenetica molecolare, vale a dire il progetto di ricerca volto a individuare il grado di parentela tra gli organismi per mezzo dello studio del loro genoma. Woese non solo scoprì il dominio degli Archea – più complessi dei Batteri e già posti sul ramo evolutivo che avrebbe condotto alle più complesse cellule degli Eucarioti – ma ipotizzò anche l’esistenza di un periodo ancestrale caratterizzato da un’intensa attività di trasferimento generico tra le forme di vita sul nostro pianeta reso possibile dal fatto che il primo acido nucleico di viventi non era il DNA ma l’RNA, assai più incline alla contaminazione.
La questione del trasferimento genetico orizzontale costituisce uno degli argomenti più importanti de L’albero intricato e, dal punto di vista del modo in cui guardiamo l’evoluzione sul nostro pianeta, un fatto di portata rivoluzionaria del quale stiamo ancora cercando di comprendere le conseguenze. Già prima di Darwin, «l’idea che le creature viventi – scrive Quammen – non avessero forme eternamente stabili, così come Dio le aveva create, ma si fossero invece modificate nel corso del tempo, passando da una forma a un’altra» era un’idea accettata; tuttavia, pur accettando il mutamento nel tempo, la stabilità delle specie costituiva il fondamento stesso della storia naturale.
Il dogma della stabilità delle specie cominciò a vacillare negli anni Sessanta, quando si cominciò a cercare di comprendere come si erano formati i mitocondri nelle nostre cellule e i cloroplasti nelle cellule vegetali. In tutt’e due i casi, si tratta di organelli che hanno la funzione di produrre l’energia indispensabile alla vita delle cellule. Erano frutto dell’incremento della complessità delle cellule, oppure si trattava di qualcos’altro? La comunità scientifica giunse alla conclusione che si trattava si batteri ospitati in cellule più grandi, coevolutesi in maniera simbiotica, pur restando geneticamente distinte. I nostri mitocondri, infatti, hanno, più breve, un loro peculiare DNA, distinto dal DNA delle nostre cellule – un DNA mitocondriale che si trasmette solo attraverso le cellule uovo e non attraverso gli spermatozoi.
La possibilità di una unione simbiotica tra due forme di vita distinte cominciò a essere presa in considerazione negli anni Sessanta, rendendo più complesso il modello dell’evoluzione perché affiancava alla selezione naturale, che prevede la variazione per mezzo di mutazioni casuali del genoma, una variazione genetica molto più rapida, per mezzo dello scambio di geni per linea orizzontale, in particolare grazie all’azione dei virus. Erano anche gli anni in cui, in particolare in Giappone, si stava cominciando a studiare il fenomeno della resistenza agli antibiotici, ipotizzando che l’incremento della carica virale dei batteri poteva essere prodotto non tanto dalla loro evoluzione, quanto piuttosto dall’acquisizione orizzontale di geni appartenenti a varianti batteriche più aggressive.
L’albero intricato ricostruisce la storia di queste esplorazioni scientifiche, mostrando in particolare la perdurante resistenza di molti ad accettare l’idea che vi potesse essere scambio genico tra le specie. Quanto poco il modello della trasmissione genica orizzontale potesse andar d’accordo con il paradigma dell’albero della vita, si fece sempre più chiaro negli anni Settanta, quando cominciò ad operare Carl Woese.
Il biologo americano ebbe l’idea di costruire un albero della vita analizzando una breve molecola di RNA dei ribosomi. I ribosomi sono presenti in tutte le cellule dei viventi e hanno la funzione di costruire ogni tipo di proteina: l’ideale, quindi, per determinare i rapporti evolutivi tra gli organismi. La ricerca diede risultati sorprendenti: Woese non solo scoprì «gli alieni tra noi», vale a dire gli Archei, oltre ai già noti Batteri ed Eucarioti, ma dovette ipotizzare una sorta di «stato ancestrale comune» anteriore ai tre rami principali del suo albero, caratterizzato da un fervido scambio genetico, in un mondo in cui prevaleva una vita fatta non a DNA, bensì a RNA.
Negli anni Novanta «crebbe in maniera esplosiva la consapevolezza del ruolo giocato dal trasferimento genico». Nelle pagine de L’albero intricato, David Quammen descrive molto bene il pericolo che per la nostra specie sta diventando la resistenza agli antibiotici reso possibile proprio dallo scambio di geni tra batteri, spesso reso possibile dai virus. Ma poi l’autore americano descrive lo stato della ricerca più avanzata, quella che sfrutta appieno l’accelerazione delle pratiche di sequenziamento del DNA unita all’arricchimento delle banche dati genomiche – condizioni che ora permettono di costruire alberi filogenetici tanto precisi, quanto complessi. Per quello che ci riguarda in quanto specie, il risultato attuale parrà inquietante a molti: il codice genetico di ciascuno di noi è un mosaico. Non solo abbiamo geni di scimpanzé o geni di Neanderthal, ma addirittura frammenti di geni cooptati da retrovirus (probabilmente utili per ingannare il nostro sistema immunitario, impedendogli di espellere quel corpo estraneo che è il feto).
Con la messa in crisi dell’albero della vita è entrata in crisi anche la convinzione che la nostra specie sia distinta dalle altre; mentre il sequenziamento di genomi appartenenti a creature non umane ci mostra quanto il nostro genoma sia legato ad ogni forma di vita sul pianeta. Questa prospettiva ha acquistato maggior evidenza dopo aver constatato che, per ognuna delle nostre proteine, potremmo costruire alberi filogenetici diversi. Alla luce di queste conoscenze, emerge l’evidenza che, quando una specie si estingue, si spegne anche la possibilità di conoscere qualcosa del nostro passato, il cui esame genetico ci avrebbe forse fatto meglio affrontare il futuro.