Un tiramisù per tutti

Il grande gastronomo francese Jean Anthelme Brillat-Savarin scrisse: «On devient cuisinier, mais on naît rôtisseur» (rosticcere – ma in francese, rôtisseur, suona meglio – quindi rosticcere si nasce mentre cuoco si diventa): vero, sante parole! E io rôtisseur non nacqui mentre cuoco lo sono diventato: non ho avuto né nonne né mamme che mi hanno insegnato, solo libri (permettetemi di segnalarvi il più importante e formativo, per me e per oserei dire centinaia di migliaia di cuochi e di appassionati di cucina, L’Arte della cucina moderna di Henri-Paul Pellaprat, pubblicato per la prima volta nel 1936 e che è anche un po’ ticinese, dato che l’editore che lo fece scrivere a Pellaprat – e sa il cielo quanto gli editori sono importanti nel successo di un libro! – fu René Kramer di Castagnola, grande principe della gastronomia, morto a Lugano nel 2019 a 91 anni).
Ma il problema non è solo diventare rôtisseur o cuisinier, ma anche pâtis­sier ou cuisinier… Complicata la vita.
E io i dolci non li ho mai amati. Quindi cucino, ma raramente al barbecue, che ho solo in campagna, ma non a Milano dove non ho né terrazze né balconi; e di dolci ne faccio ben pochi, il «minimo sindacale» dico io, per quando faccio una cena formale – se è meno formale, scelgo un ospite e gli dico: «I dolci portali tu!». Altrimenti via con la frutta e le macedonie, che adoro. Oppure li compro, in una buona pasticceria.
Per soprammercato, amo talmente il salato che in un ristorante assaggio più piatti possibili – anche se vado solo per piacere, per giudicare devo aver molto assaggiato, è il mio mestiere, o forse una deformazione professionale – per cui a fine pasto non gusto i dolci: e la cosa non mi crea problemi. Evidentemente da piccolo sono stato spaventato, e tanto, da una confezione di zucchero…
Questo detto, quando proprio devo fare un dolce, succede poco ma succede, nove volte su dieci la scelta è il tiramisù. Perché piace comunque a tutti. Perché non prevede cottura ma assemblaggio di ingredienti solo manipolati e a manipolare sono bravo. È anche facile da fare: per il cibo salato le difficoltà non mi spaventano, per i dolci sì. Cosa chiedere di più?
È un dolce di grandissimo successo messo a punto molto di recente; in molti ne rivendicano la primogenitura, fra Friuli, Treviso e anche Venezia, e le varianti sono parecchie. A me parlare di primogenitura di un piatto fa venire l’orticaria, dato che sono convinto che tutti i piatti appartengano al mondo, a chiunque cucini in tutto il pianeta, se poi li sa fare bene è meglio e se usa ottimi ingredienti è meglio ancora.
Di sicuro, comunque, i friulani sono stati bravi a trovare e a pubblicare documenti che fanno pensare che l’hanno inventato loro, i trevigiani si sono molto lamentati ma hanno poco ricercato nei loro archivi mentre i veneziani, minoritari in questa gara, hanno cercato anche di meno.
Altro dibattito è perché si chiami così. Dato che comunque corroborante è, evidentemente serviva a smorzare la stanchezza, comunque provocata da un duro viaggio, da un duro lavoro e da altre dure attività. Plausibile, direi.
Le varianti sono tante, inutile elencarle: e comunque questo è il bello della cucina, chiunque può interpretare un piatto come vuole, senza fossilizzarsi in canoni che peraltro non esistono. Più che mai resta valida la celebre frase del compositore Gustav Mahler che dice: «La tradizione è la custodia del fuoco e non l’adorazione delle ceneri». Ho sempre cercato di tradurre questa frase in linguaggio corrente, ma non è possibile, è troppo perfetta. Vale per la cucina, vale per tutto.

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