Gli «occhi» fra le dune del deserto

by Claudia

Adrenalina - I sudati duemiladuecento chilometri di Nunzia Del Gaudio alla Dakar Classic con la Desert Endurance Motorsport

Sabbia, acqua, tanta acqua (come non se ne vedeva da una buona ventina d’anni a quelle latitudini) e massima concentrazione. Con maratone quotidiane di 400 km di media (ma con picchi fino a 900 km) da percorrere con camion su «strade»: sassaie, distese di sabbia e pochissimi chilometri di vie asfaltate ma in condizioni non certo ottimali.
È il menu che Nunzia Del Gaudio e compagni d’avventura (accanto a lei, nell’abitacolo dell’Iveco «Musone» c’erano Andrea Cadei e Beppe Simonato) si sono sciroppati tra le dune del deserto. Giorni spossanti, dove l’adrenalina per domare quelle dune ha fatto da carburante al trio dal primo all’ultimo giorno, portandolo al traguardo finale, 2200 km oltre la partenza. Stanchi ma contenti di aver portato a termine una piccola grande impresa. «Se lo rifarei? Sì, senz’ombra di dubbio. Appena rientrati, avevo già voglia di tornarci!». Così Nunzia Del Gaudio torna sulla sua esperienza alla Dakar Classic con la Desert Endurance Motorsport, la prima «spedizione» ticinese alla gara delle gare.
Dopo averne riferito in termini generali nel numero 6/2023 di «Azione», è ora di entrare nell’abitacolo dell’Iveco numero 913 per sentire la voce di chi quell’avventura l’ha vissuta direttamente, raccogliendone le emozioni. Ancora vivide a qualche mese di distanza… «La Dakar è qualcosa che ti entra nel cuore. È come una malattia, di cui non ti liberi facilmente. L’ho provato sulla mia pelle: parteciparvi era il mio grande sogno, e ora che l’ho coronato, non vedo l’ora di rifarlo. Già una manciata di giorni dopo il nostro rientro in Ticino non vedevo l’ora di ripeterla. E così, appena disfatti i bagagli, ci siamo messi al lavoro per preparare la prossima spedizione».
A sentirla raccontare di quell’incredibile quindicina di giorni («anche qualcuno in più considerando che siamo arrivati sul posto qualche giorno prima per completare tutti i preparativi, e per una manifestazione del genere non sono certo pochi!») è come se le immagini scorressero davanti ai nostri occhi. Come se qualcuno di quegli infiniti granelli di sabbia di quel deserto si insinuasse nell’aria. «Cosa che non escluderei dato che di sabbia, volenti o nolenti, ce ne saremo portata a casa parecchia, intrufolatasi nei nostri bagagli. Ancora oggi mi capita di riprendere qualcuno dei vestiti che avevo con me laggiù e ritrovarmi inaspettatamente (ma fino a un certo punto) per le mani qualche granello di sabbia. E subito la memoria torna a quei giorni…».
Nella Dakar Classic, a bordo del Musone, Nunzia, nei panni di navigatore, ha fatto da… occhio, orientando il pilota su strade che non sono strade, ma unicamente una debole traccia appena percettibile sulla sabbia, un occhio tra le dune, dunque, ma anche metronomo della spedizione. Perché in una competizione come la Dakar Classic sono proprio le medie a determinare la prestazione e dunque la classifica finale: «Anche se a dire il vero il risultato inteso come classifica nuda e cruda non è mai stato la nostra priorità, e nemmeno quella di gran parte degli equipaggi che si sono presentati al via della Classic. In una gara così non è tanto il “come” arrivi e “quanto” ci metti, ma il “se” ci riesci. È una costante battaglia, dal primo all’ultimo chilometro, dal primo all’ultimo giorno. E quando arrivi in fondo, quando nessuno ti può negare l’onore di portare le ruote del tuo veicolo sulla passerella destinata ai “finisher” e ti metti al collo la medaglia con cui vengono premiati quelli che ce l’hanno fatta, beh, tutti gli sforzi sono ripagati».
Ma non è quella l’emozione più grande che Nunzia ha provato sull’arco di quegli indimenticabili quindici giorni nel deserto: «Quando ho stretto la mano a una leggenda del volante come Jacky Ickx, il gran cerimoniere della passerella finale, l’emozione è stata parecchia, ma ne ho provato una ancora più grande il giorno precedente, in quella che a tutti gli effetti era la tappa finale, con gli ultimi chilometri di percorso che corrono paralleli al mare. Una distesa che sembra non avere fine. Poi ai lati vedi sempre più gente festante e capisci che il traguardo è vicino. Ancora qualche chilometro, un ultimo sforzo e finalmente eccolo lì davanti, il traguardo che hai inseguito da quella che ti sembra un’eternità: la scritta “Finish”. È lì che ho provato l’emozione più forte, il momento in cui tutta l’adrenalina accumulata nei precedenti giorni lascia spazio alla consapevolezza di aver coronato l’impresa. Anche se per realizzare per davvero quanto fatto ci sono voluti ancora diversi giorni».
Torniamo però fra quelle dune: quali sono stati i momenti salienti della gara? «Un giorno con il nostro Musone abbiamo tolto dai pasticci un altro equipaggio, che col suo mezzo, un camion ben più potente del nostro, si era insabbiato e non riusciva più a ripartire. Trovarti nei guai in mezzo al deserto non è evidente: non è che puoi chiamare il carro attrezzi… L’organizzazione vigila sulla sicurezza, ma non interviene attivamente in caso di avarie, a meno che non ci sia reale pericolo per l’incolumità delle persone. Per cui devi arrangiarti… Il bello di una gara come la Dakar Classic è però che tutti siamo sullo stesso piano, e tutti (o quasi) accomunati dal medesimo obiettivo: arrivare fino in fondo. Così la camerateria la fa da padrona fra le diverse squadre in gara».
E non sono mancati momenti delicati: «La vera sfida, per il navigatore, è rappresentata da quei segmenti in cui, per dare un po’ di pepe alla competizione, non viene indicato il percorso da seguire ma vengono forniti unicamente dei punti di passaggio, i cosiddetti waypoint. Allora la responsabilità ricade tutta sulle spalle del navigatore, che deve guidare il pilota attraverso quello che ritiene sia il percorso ideale; il tutto sempre badando di discostarsi il meno possibile dalla media ideale fissata dagli organizzatori. E stiamo parlando di limiti sugli 80 km/h, magari una bazzecola o poco più su strade normali, ma che fra le dune e il pietrisco del deserto sono tutt’altra cosa. E ancora più difficile in assoluto da gestire in quei giorni è stato il freddo. Ha piovuto parecchio, cosa che non capitava da tempo immemore alla Dakar, e di notte, complice l’umidità, le temperature si abbassavano parecchio. Dormire, o, almeno, provare a farlo, in condizioni così non era l’ideale, men che meno lo era mettersi al volante l’indomani per un’altra tappa. Specie per una “Marathon”, con addirittura un totale di 900 km da macinare…».