L’invidiabile ozio creativo di Edgar Morin

by Claudia

Tra il ludico e il dilettevole - Il sociologo e filosofo francese, correva l’anno 1969, osservò affascinato le nuove generazioni durante un soggiorno americano scrivendone in un diario che fu poi pubblicato / California 2

Nell’autunno del 1969, il sociologo e filosofo francese Edgar Morin fu invitato dal prestigioso Salk Institute for Biological Research di San Diego a trascorrere qualche mese in California. Morin aveva 48 anni ed era già un pensatore affermato. Si era fatto conoscere, a partire dagli anni Cinquanta, grazie alle sue analisi dell’industria culturale, del linguaggio del cinema, e dell’immaginario occidentale. In L’uomo e la morte aveva indagato le implicazioni sociali, culturali e storiche della morte, e aveva all’attivo pubblicazioni, come L’An zéro de l’Allemagne (1946) oppure Maggio ’68. La breccia (1968), che mettevano la sociologia al servizio dell’attualità. Pensatore eclettico e sintonizzato sulle frequenze del sapere contemporaneo, quando Morin arriva in California sta riflettendo su una serie di problematiche alla frontiera fra la biologia, l’etica e la sociologia, che definiranno in modo importante le sue opere successive. Oggi, alla veneranda età di 102 anni, Morin è indiscutibilmente uno dei maggiori intellettuali del XX secolo.
Quando Morin arriva in California, trova i resti ancora incandescenti della rivolta studentesca del ’68. Se il climax dell’effervescenza è ormai passato, ciò non impedisce al sociologo di sperimentare idee, forme di vita, e visioni del mondo che rappresentano pur sempre quanto di meglio la controcultura abbia prodotto in quegli anni. Il fenomeno hippy, le comunità autogestite, il movimento ecologista, i ritrovi collettivi dei sit-ins o dei concerti open air, la pervasività di nuove sensibilità religiose e la psichedelia rappresentano agli occhi di Morin un grande esperimento socio-culturale a cielo aperto che lo stimola profondamente. Morin è affascinato dalla spinta emancipatrice che riconosce nelle nuove generazioni, le quali, in nome di ideali come l’amore, la felicità, la pace e libertà, si differenziano dalla borghesia conservatrice sperimentando stili di vita alternativi.
Di questo e di molto altro, Morin scrive nel suo Journal de Californie (1970) (tradotto in italiano da Moretti&Vitali con il titolo di Diario di California), un racconto appassionante in cui confluiscono piani diversi dell’esperienza: la curiosità un po’ ingenua di chi scopre un mondo diverso, e l’entusiasmo della novità, si alternano felicemente a riflessioni più introspettive sul senso della vita e sulla felicità. Alle pagine del suo diario Morin consegna, più di una volta, quel senso di stupore di fronte a una civiltà americana che, ai suoi occhi, rappresenta «la migliore società che sia mai esistita su vasta scala e, al contempo, la peggiore».
Leggendo le pagine di questo diario si avverte pure come, per una fortunata circostanza di eventi, in quei mesi Morin conoscerà una vera e propria maturazione interiore. Dopo un comprensibile periodo di ambientazione Morin restituisce, infatti, la descrizione di uno stato di cose in cui, progressivamente, le esperienze dello studioso e le aspettative del viaggiatore si arricchiscono all’insegna di un autentico ozio creativo. Ciò lo porta a riconoscere che «la felicità non risiede nella separazione fra le vacanze e il lavoro, ma nella loro unione. Vacanze e lavoro sono qui alternate, combinate, indissociabili: il mio lavoro ha tutte le virtù delle vacanze, libertà e gioia; le mie vacanze telluriche, oceaniche, solari, cosmiche, esaltano il mio lavoro. Le gioie di questo lavoro e di queste vacanze sono, le une come le altre, le stesse che avverto nella profondità del mio essere».
Morin, come detto, in California sperimenta una rigenerazione personale a tutto tondo, uno stato di pace interiore e di serenità, unite a un ambiente di lavoro fortemente stimolante, che trasforma la California in una sorta di luogo edenico verso il quale non può che provare un misto di amore e riconoscenza. «Amo i colori della terra, dell’erba, del mare, del cielo – afferma Morin in una pagina del diario –, amo la California arida e la California tropicale, la California dei deserti e la California dei giardini, amo questa sorta di Mediterraneo archetipico dal clima dolce e dalla geografia arida, amo la primavera che sostituisce l’autunno e l’inverno, amo il sole e il cielo permanentemente blu, amo l’oceano mostruosamente potente e ammiccante, amo andare al lavoro in jeans e camicia, amo le case basse, amo il fatto che il legno e il vetro, anche nelle abitazioni più lussuose, esibiscono apertamente il marchio della rusticità. Ma ciò che amo soprattutto è avere potuto, in queste condizioni, in questi luoghi, in questo clima, intrecciare vacanze e lavoro».
Al di là del valore di testimonianza che ogni diario racchiude – e a maggior ragione il diario di una figura intellettuale come Edgar Morin –, è difficile non attribuire, retrospettivamente, al Diario della California, e all’esperienza che vi viene narrata, un ruolo di spartiacque nella carriera del pensatore francese. Certamente all’epoca Morin non poteva sapere con certezza che quel viaggio cadeva, in modo quasi dantesco, «nel mezzo del cammin» della sua «vita». Con la differenza, non trascurabile, che se ad attendere Dante c’era la «selva oscura», l’esperienza di Morin è baciata da un sole decisamene paradisiaco.