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Alla disperata ricerca degli UFO

by Claudia

Il nome di Galileo Galilei è stato associato a missioni e ricerche in campo spaziale. Non ultimo il Sistema Galileo, che per l’agenzia spaziale europea (ESA) indica il sistema di posizionamento controllato dai satelliti, l’equivalente europeo del notissimo GPS americano. Civile il primo, militare il secondo. L’ultima dicitura che porta il suo nome fa capo al Dipartimento di astronomia della Harvard University di Cambridge Massachusetts ed è un progetto che ha l’obiettivo principale di cercare gli indizi che svelino la presenza di tecnologie aliene in prossimità della Terra. Sono definiti come «fenomeni aerei non identificati», nella sigla in lingua inglese UAP (Unidentified Aerial Phenomena), nome preferito dai militari e sigla che ha sostituito la vecchia di UFO (Unidentified Flying Object), «oggetti volanti non identificati». Meno di un mese fa i membri del gruppo di lavoro legati al citato Progetto Galileo hanno tenuto una riunione, trasmessa dal canale web di NASA TV, nella quale hanno preannunciato la pubblicazione, prevista per la fine dell’estate, di un loro rapporto in proposito, presumibilmente il primo di una serie. Inutile dire che il fatto ha scatenato le fantasie di un tipo di stampa che, per attirare l’attenzione, non ha esitato a usare titoli tipo Storica conferenza della NASA sugli UFO. Di veramente storico francamente non ci pare ci sia nulla. In più la patente di ufficialità che si potrebbe leggere dietro la presunta sponsorizzazione della NASA, l’Agenzia spaziale americana, appare ingannevole.
Certo, la quindicina di scienziati, tra astronomi, biologi, fisici e tecnologi capitanati dal dr. Avi Loeb, che formano il gruppo di lavoro del Progetto Galileo, attivi insieme con collaboratori esterni esperti di informatica, chimica e altre discipline, hanno tutti la benedizione della NASA, che è ben contenta che altri spendano soldi privati per ricerche imparentate con le sue ufficiali. L’onore e l’onere di condurre ricerche parallele fa comodo all’amministrazione americana, sempre più aperta ai privati in ogni campo spaziale. Ricordiamo che fin dagli anni Settanta la NASA insieme a organizzazioni scientifiche private lanciò il progetto SETI (Search for Extra-Terrestrial Intelligence), ricerca di forme intelligenti di vita extraterrestre. Da allora procede con varie ramificazioni internazionali e costa parecchio. SETI si occupa in modo scientifico di rilevare onde e segnali radio che arrivano dall’universo al fine di individuare eventuali segni di vita intelligente, come noi la concepiamo, abbastanza evoluta da poter rispondere a segnali radio che noi stessi inviamo nello spazio. Qualsiasi registrazione ottenuta da terzi in questo ambito deve essere sottoposta al giudizio dei responsabili del programma SETI, seguendo un protocollo preciso.
Detto questo, cosa c’è di nuovo nel proclama del Progetto Galileo? Qui non si tratta solo di segnali radio: il gruppo di ricercatori dell’Harvard University ha reso noto che si stanno analizzando circa 800 episodi di fenomeni aerei apparentemente inspiegabili, ma che quelli considerabili come anomali sono meno di 40 e, in ogni caso, lo stesso gruppo di lavoro denuncia che gli attuali sistemi di raccolta dati non sono sufficienti per dare una risposta attendibile. Risposta che, tra l’altro, con gli extraterrestri potrebbe non aver nulla a che fare. È ragionevole pensare che nell’universo vi possa essere vita simile o diversa dalla nostra, ma comunque vita. La presenza di centinaia di miliardi di galassie, ognuna con miliardi di stelle e innumerevoli pianeti, rende scientificamente improbabile che siamo soli nell’universo e che la nostra vita sia stata solamente il frutto di una circostanza fortunata e irripetibile. Che poi queste possibilissime vite aliene riescano fisicamente a manifestarsi a noi è tutt’altra faccenda. Per lo meno se ragioniamo nei termini della nostra tecnologia.
Limitiamoci alla nostra galassia: la Via Lattea. Si calcola che potrebbe contenere oltre 300 miliardi di stelle di cui un migliaio, assimilabili al Sole, sarebbero entro una distanza di 100 anni luce da noi. L’anno luce è una distanza di 9460 miliardi di chilometri. Distanze enormi su scala umana. Per farvi un’idea: nel 1977 abbiamo lanciato la sonda Voyager 1 oltre i confini del Sistema solare. Nel 2012 è uscita nello spazio interstellare e l’ultimo dato, del 5 giugno 2023, la dà a 23,9 miliardi di km oltre il Sole. Siamo ancora in contatto radio col Voyager ma nessuno oltre a noi ha mostrato di averlo notato. Parlando di segnali radio inviati da Terra verso lo spazio, quante e quali stelle hanno raggiunto? Due astronomi del Deep Space Network della NASA, usando un catalogo stellare della missione Gaia dell’ESA, sono giunti alla conclusione che i nostri segnali in tutti questi anni potrebbero aver raggiunto solamente 4 stelle e in più molto meno brillanti del Sole, che speriamo attorniate da pianeti. Ammesso che gli ipotetici alieni locali abbiano riconosciuto i nostri segnali e che si siano presi la briga di risponderci, forse la loro risposta potrebbe arrivarci per la fine di questo decennio. Ammesso e non concesso, perché non abbiamo oggi alcun modo di capire se attorno a quelle 4 stelle ci siano davvero esopianeti compatibili con la vita. Quindi la nostra speranza di contatto resta, appunto, solamente una speranza.
Si definiscono come esopianeti quei pianeti che orbitano attorno a una stella che non sia il Sole. La scoperta del primo esopianeta, avvenuta nel 1995, è valsa il premio Nobel per la fisica allo svizzero Michel Mayor e al suo allievo Didier Queloz. Da allora è partita una importante corsa mondiale alla scoperta degli esopianeti, che hanno superato il numero di 4000. Il prestigio e la qualità delle ricerche svizzere hanno poi dato l’opportunità alle nostre università di Berna e Ginevra di lanciare nel 2019, con il sostegno dell’Agenzia spaziale europea, il satellite CHEOPS, un telescopio spaziale che studia dimensioni e caratteristiche di esopianeti già conosciuti, di dimensioni comprese tra 1 e 6 volte il raggio terrestre. Dopo 3 anni dalla messa in orbita, CHEOPS sta ancora lavorando efficacemente con la preziosa collaborazione del telescopio spaziale James Webb (JWST) della NASA al quale chiede di puntare sull’esopianeta che sta analizzando. La qualità delle immagini di JWST, le migliori al mondo, permettono di individuare dettagli preziosi. Questo lavoro di coppia ha dato grandi risultati e CHEOPS, che doveva cessare l’attività il prossimo settembre, ma vede la sua vita prolungata almeno fino al 2025.

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