Fino a un tempo relativamente recente, poco più di mezzo secolo fa, il passato dell’Africa era ancora un fatto privato, un patrimonio degli africani non condiviso con il resto del mondo. In qualunque punto del Continente fosse nato, un individuo conosceva i nomi dei propri antenati, era capace di risalire di nome in nome la propria genealogia, per molte generazioni. Sapeva queste cose perché così gli era stato insegnato, conosceva il proprio posto nel tempo e nel luogo in cui viveva attraverso questo rapporto personale, intimo verrebbe da dire, con le donne e gli uomini che lo avevano preceduto su questa Terra e lo avevano generato.
Nello spazio pubblico, viceversa, imperava l’ignoranza portata dai colonizzatori europei. Questi erano convinti che l’Africa non avesse un passato: essa viveva in un eterno presente, ferma allo stato di natura rimasto immutato dalla notte dei tempi. Non conosceva secondo loro civiltà se non quella portata da fuori. Il pregiudizio illuminista e poi ottocentesco vigeva ancora alla metà del Novecento. L’Africa era e restava il «Continente senza storia» condannato dalle cieche parole di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), uno dei più grandi pensatori europei. Poi venne il genio di Cheikh Anta Diop.
Cheikh Anta Diop (1923-1986), senegalese, è stato un fisico, un antropologo, uno storico, un linguista e molte altre cose. La sua mente non aveva confini. In pochi anni passò da una tradizionale scuola coranica della sua terra d’origine al Collège de France di Parigi, si addottorò in un’infinità di materie, studiò fisica nucleare con il genero di Marie Curie, tradusse la teoria della relatività di Einstein in wolof (lingua parlata in Senegal). Ma non è ricordato per questo, bensì per la sua sconvolgente tesi storiografica: i faraoni, affermò, erano neri. Africani. Africana era dunque la civiltà dell’antico Egitto.
La sua tesi fu considerata rivoluzionaria da alcuni, infondata da altri, convinti dell’origine extra-africana degli Egizi. La controversia fu enorme e in parte dura ancor oggi. Ma, nella sostanza, Cheikh Anta Diop l’ha avuta vinta: qualunque fosse il colore della loro pelle, nessuno dubita più che i faraoni fossero africani a tutti gli effetti. Soprattutto, la sua temerarietà e originalità di pensiero ha liberato la mente degli studiosi, ha sepolto il pregiudizio di Hegel e restituito al passato africano la dignità che era stata negata. Nello spazio mentale e culturale direttamente o indirettamente creato dai suoi studi senza precedenti, è fiorita nei decenni una messe di opere sull’antica storia dell’Africa.
Oggi sappiamo che, più o meno negli stessi secoli del Medioevo e del proto-Rinascimento in cui in Europa si andava formando lo Stato moderno, l’organizzazione sociale e politica dell’Africa affrontava un processo analogo. In più punti del Continente grandi regni e imperi sorsero o si affermarono su realtà preesistenti. E prima ancora in Egitto, nella Nubia, nell’odierno Tigrè etiopico e altrove, erano fiorite complesse civiltà e sistemi di governo. Ricchissima è la bibliografia che ne ricostruisce le vicende, i rapporti commerciali, spirituali, diplomatici con il mondo esterno, le ambizioni, le innovazioni, l’affermazione e il declino. Molto se ne sa e molto resta da scoprire. Ultimo, appena pubblicato, è un bellissimo volume edito dalla britannica Thames & Hudson: Great Kingdoms of Africa (a c. di John Parker). Il libro si avvale del contributo di numerosi specialisti di varia origine e competenza: da anni lo studio del passato africano attinge alle più diverse discipline, dall’archeologia alla storia dell’arte. Questo racconto a più voci è organizzato in ordine cronologico, dalla civiltà delle piramidi cara a Sheikh Anta Diop al regno Zulu, che ebbe il suo apogeo nel diciannovesimo secolo nell’odierno Sudafrica. Cartine, illustrazioni e testi sempre di accattivante lettura restituiscono l’eccezionale contributo dell’Africa alla civiltà umana. Particolarmente emozionanti sono gli infiniti riferimenti al patrimonio di capolavori artistici che testimoniano la gloria di questo passato. Si impara per esempio che i più antichi Vangeli miniati, cioè illustrati con miniature, sono etiopici, datati tra il quarto e il settimo secolo dell’era cristiana.
Il secondo capitolo del libro è dedicato agli Imperi sudanesi, cioè situati in quella che i geografi arabi chiamavano bilad al-Sudan, la «terra dei neri» a meridione delle vastità desertiche del Sahara. Questi territori non hanno nulla a che vedere con l’odierno Sudan e perciò sarebbe preferibile adottare l’aggettivo inglese, sudanic, «sudanici». Essi sono principalmente tre: Ghana, Mali e Songhay, e corrispondono grosso modo agli attuali due Stati dello stesso nome. In queste pagine, solo un breve accenno ricorda il più famoso sovrano dell’Impero del Mali, Mansa Musa I, figura storica e mitica che oggi si tende a considerare come l’uomo probabilmente più ricco di tutti i tempi. Per fortuna l’opera di un autore italiano, anch’essa recentissima, dedica a quel fantastico re un intero volume. Parliamo di La carovana del sultano, sottotitolo Dal Mali alla Mecca: un pellegrinaggio medievale dell’antropologo Marco Aime (Einaudi).
La fama imperitura di Mansa Musa si deve in primo luogo a una carta geografica, il celeberrimo Atlante catalano disegnato a Palma di Maiorca da Abraham Cresques nel 1375 circa. Qui il Rex Melli, o re del Mali, è raffigurato in tutto il suo splendore: seduto su un trono d’oro, con in capo una corona d’oro, nella mano destra un globo d’oro e nella sinistra uno scettro dello stesso metallo, è un sovrano fulgido, potente, un grande della Terra. Cinquant’anni prima, nel 1324, aveva compiuto un viaggio alla Mecca alla testa di una carovana di migliaia di persone e di dromedari, e di quintali d’oro, un trionfo transafricano magnificato dai cronisti dell’epoca. È di quella impresa che ci racconta meravigliosamente Aime.
10
previous post