Si è tenuta giovedì scorso al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia la finale del più importante premio letterario italiano: lo Strega, giunto quest’anno alla 77esima edizione, vinta da Ada D’Adamo, la scrittrice scomparsa lo scorso primo di aprile. Hanno ritirato il premio in sua vece il marito Alfredo Favi e la giornalista Elena Stancanelli che ne aveva proposto la candidatura.
Non si è trattato della prima vittoria postuma, nel passato era già successo nel 1959 con Il gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e nel 1995 con Passaggio in ombra di Maria Teresa Di Lascia.
Fatto sta che la vittoria di Come d’aria con 185 voti è anche il riconoscimento del coraggio di una piccola casa editrice come la Elliot che ha creduto nel libro della D’Adamo sulla verità di una madre la cui figlia è gravemente disabile. Daria è nata affetta da una patologia cerebrale, l’oloprosencefalia, non diagnosticata nelle prime fasi della gravidanza, quando si può ancora ricorrere all’aborto terapeutico. Ciò comporta che non vede, non parla, non cammina e non lo farà mai. Nel libro troviamo pagine sulla condizione esistenziale dei genitori di bambini e bambine che non vedono e non possono muoversi: «Avere un figlio disabile significa essere soli. Irrimediabilmente, definitivamente soli». D’Adamo ne scrive a partire dalla sua condizione di donna malata e divenuta a sua volta disabile per il cancro che ne ha causato la recente scomparsa. Loretta Santini, editor della casa editrice Elliot, durante la serata di premiazione ha detto: «Mi auguro che leggerlo possa aiutare le persone a sentirsi meno sole, specie chi si trova nella sfortunata condizione di Ada».
Le storie sulle madri e più in generale sulle famiglie sono un leitmotiv della narrativa italiana e i cinque libri finalisti ben rappresentano questa tendenza. Il romanzo di Andrea Canobbio La traversata notturna (La nave di Teseo, pp. 521) che si è aggiudicato il terzo posto è un lungo e accurato lavoro di scavo che l’autore effettua sulla storia della sua famiglia. Il testo è suddiviso in ottantuno capitoli a cui corrispondono altrettanti luoghi della città di Torino, che diventa per Canobbio una mappa per organizzare i ricordi della sua famiglia: la storia della depressione di suo padre, raccontata con ironia e rabbia, dello stoicismo di sua madre, il fascismo del nonno. Il romanzo è quindi una ricerca delle origini, un mezzo per ritracciare la memoria familiare, ricostituendo un vero e proprio archivio sentimentale.
Maria Grazia Calandrone, già candidata nel 2021 con il romanzo Splendi come vita (Ponte alle grazie, pp. 224) è approdata quest’anno alla cinquina dei finalisti con un nuovo testo sulla madre. Mentre nel precedente aveva raccontato della donna che l’aveva adottata in Dove non mi hai portata (Einaudi, pp. 256) la scrittrice, già poeta, cerca di ricostruire la storia di Lucia, sua madre biologica, che poco dopo averla messa al mondo la lasciò su un prato a Villa Borghese e si uccise gettandosi nel Tevere insieme al compagno. I due erano costretti dalla società del tempo a vivere una relazione clandestina perché lui aveva già una moglie e dei figli e lei era stata indotta a sposare «il matto del paese». Attraverso una ricostruzione meticolosa di quegli anni e una ricerca minuziosa sulla vita di Lucia prima della sua morte, il romanzo racconta la storia di un’assenza e del desiderio sconfinato di colmarla.
A ben guardare anche Rubare la notte di Romana Petri è un romanzo sul materno. L’autrice che abbiamo intervistato il mese scorso (Morire non è nulla, solo musica tra le stelle uscito sul numero 18 di «Azione» del 2 maggio) racconta la storia di Antoine de Saint-Exupéry, indimenticato autore de Il piccolo principe. Lo fa a partire proprio dal rapporto che lo scrittore francese ebbe con sua madre. Il romanzo, infatti, ruota intorno al carteggio fra i due e a come, nella ricerca instancabile dell’avventura alla guida di un aeroplano, Saint-Exupéry tornasse costantemente a ricercare l’approvazione e l’affetto materno.
Infine, il romanzo di Rosella Postorino Mi limitavo ad amare te (Feltrinelli, pp. 352), secondo classificato, racconta la guerra in Bosnia a partire dalle vicende di un gruppo di bambini che riescono ad attraversare il confine e a raggiungere un orfanotrofio in Italia. Il dolore della distruzione e della perdita, l’assurdità e la violenza del conflitto vengono qui raccontati a partire da un punto di vista originale: quello di chi ne è vittima, pur essendo riuscito a sfuggirne. Mi limitavo ad amare te, però, è soprattutto un romanzo sul materno: sulle madri che abbandonano, quelle inconsapevoli, quelle perfette, le madri adottive, insomma su ciò che Postorino descrive come la potenza sovrannaturale di mettere al mondo un figlio: «La possibilità di usare il proprio corpo come valico tra il visibile e l’invisibile, tra la mente di Dio e la vita in carne e ossa».
In Italia del resto si sa, non ci sono molte certezze, ma lo Strega è sempre lo Strega e la mamma è sempre la mamma.