Il trucco dell’incantatore: «Vuoi davvero saperlo?»

Quando, nel 1926, Harry Houdini – forse il più grande mago illusionista di tutti i tempi – morì prematuramente per una fatalità dai toni tuttora sospetti, per il pubblico internazionale di allora si trattò di uno sconvolgimento pari a quello causato dalla morte di una grande figura pubblica: qualcuno del calibro di un autentico trascinatore di folle, in grado di esercitare un’influenza e potere che andavano ben oltre la semplice capacità di estrarre un coniglio dal cappello a cilindro.
Oggi, a quasi un secolo da allora, si può dire che lo status e il prestigio legati alla figura solo apparentemente demodé del «mago» siano più che mai attuali, e ben lungi dall’essere considerati in alcun modo obsoleti o agonizzanti; grazie anche al suo forte influsso sulla cultura popolare, quello del grande, carismatico illusionista è divenuto a tutti gli effetti un trope culturale a sé stante, al punto che oggigiorno, in tutto il mondo, moderne generazioni di maghi crescono sperimentando nuovi modi di lasciare il pubblico a bocca aperta – travalicando qualsiasi barriera culturale grazie al linguaggio e codice universale dell’illusionismo (termine utilizzato per distinguere tale forma d’arte dalle conoscenze esoteriche e occulte della tradizionale magia bianca e nera).
Così, le centinaia di «magic clubs» sparsi per tutto il mondo non svolgono il ruolo di semplici associazioni, ma costituiscono piuttosto vere e proprie confraternite, animate da precetti etici antichi quanto imprescindibili; un esempio su tutti, la prestigiosa International Brotherhood of Magicians, la quale, come una sorta di società segreta, segue un codice secolare riservato a quei privilegiati che, tramite anni di studi e allenamento, sono stati iniziati agli insondabili misteri della cosiddetta sleight of hand – ovvero, l’estrema destrezza di mano che è alla base di ogni gioco di prestigio.
Sì, perché la tecnica dell’illusionismo affonda le proprie radici non soltanto nella maestria e nelle capacità del mago ma, secondo alcuni, nel vero e proprio inganno sensoriale da questi operato – anche se forse sarebbe più corretto affermare che l’unico, vero trucco su cui la tecnica magica poggia sia l’illusione dello sguardo: la capacità di indurre lo spettatore a distrarsi dalle apparenti incongruenze davanti ai suoi occhi quel tanto che basta da convincerlo che quanto sta vedendo sia reale.
La fiducia in questa sorta di manipolazione delle umane percezioni si riflette pienamente nella filosofia da cui la «casta» dei maghi è tuttora animata: non è infatti un caso che le tecniche utilizzate da secoli dai prestigiatori vengano impiegate anche nell’ambito degli esperimenti di psicologia sociale, quando tale manipolazione può essere sfruttata per indurre subdolamente le persone a compiere l’una o l’altra scelta. Del resto, come ebbe a dire lo studioso Petter Johansson (professore di scienze cognitive), non appena un illusionista chiede a uno spettatore di scegliere una carta nel più semplice dei giochi di prestigio, questi sa già che la sua scelta non potrà in alcun caso definirsi libera, poiché «pilotata» dalla volontà (e dai segnali subliminali) del mago; il quale, a seconda dei casi, può specializzarsi in discipline quali il mentalismo (lettura del pensiero e divinazione) o il pickpocketing (sottrazione o sparizione di oggetti) – prodezze spesso collocabili al confine con la parapsicologia, al punto che perfino Arthur Conan Doyle, creatore dell’immortale detective Sherlock Holmes, era convinto che un vero, grande mago dovesse necessariamente essere dotato di facoltà paranormali.
Quindi, la domanda che a questo punto sorge spontanea è: come mai, in un mondo fortemente ipertecnologizzato quale il nostro, siamo ancora così attratti e incuriositi dalla presenza di un illusionista che esegua un gioco di prestigio? Forse questo può, almeno in parte, spiegarsi con il fatto che la magia intesa come forma di spettacolo resta una delle arti più antiche che l’umanità conosca, considerando come i primi esempi documentati possano riscontrarsi addirittura nelle imprese dei magoi della Persia antica; di fatto, la figura del grande ammaliatore, in grado di mesmerizzare intere folle semplicemente con un gesto della mano o una frase a effetto, sembra aver conservato intatto tutto il suo fascino, come dimostrato dall’invasione di film hollywoodiani sul tema che l’inizio del XXI secolo ha visto succedersi, da The Illusionist a The Prestige e Death Defying Acts. E sebbene una delle regole d’oro della professione rimanga quella che obbliga all’assoluta segretezza — dopotutto, «un vero mago non svela mai i propri trucchi» — ciò non ha impedito la creazione e diffusione di una cultura «alta» da sempre riservata agli iniziati del genere. A partire dal Settecento in poi, migliaia di libri hanno infatti analizzato ogni dettaglio della tecnica illusionistica: dai prontuari che illustrano nei particolari ogni tipo di trucco (e, in alcuni casi, perfino il modo di utilizzarlo non soltanto per i giochi da palcoscenico, ma anche per neutralizzare gli avversari!), fino a volumi accademici che smascherano il modus operandi di grandi maghi del passato.
Eppure, nonostante quest’incredibile e millenario bagaglio socioculturale, forse la vera «magia» risiede infine nell’istintiva, insopprimibile meraviglia che, come ragazzini mai cresciuti, noi spettatori medi ancora avvertiamo davanti a un gioco di prestigio magistralmente condotto. Portandoci a pensare che in fondo ci sia del vero in ciò che il personaggio di Houdini afferma nel finale del film Favole (1997) — in cui il grande mago, interpretato con maestria da Harvey Keitel, si sente chiedere da una giovane spettatrice il segreto dietro un incredibile gioco appena eseguito, soltanto per risponderle con fare ammiccante: «Vuoi davvero saperlo?». Un’osservazione davanti alla quale la maggior parte di noi non può che condividere l’opinione della bambina, la quale, dopo un attimo di riflessione, si lascia andare a una confessione semplice quando sincera: «No, in realtà no».

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