Terza puntata del nostro viaggio nella lunga filiera che dalla coltivazione del cacao ci porterà alla produzione di una delle specialità svizzere, e che più precisamente oggi ci porta nel Canton Lucerna tra pascoli ed essiccatoi
Siamo partiti dalla Costa d’Avorio per esplorare quei luoghi dove il cacao nasce e viene coltivato (v. «Azione» del 3 aprile 2023), passando poi dalla raccolta al trasporto per finire in uno zuccherificio elvetico (v. «Azione» del 15 maggio 2023). Oggi ripartiamo invece dall’azienda agricola dei fratelli Knechtle a Wäldi, nel Canton Turgovia dove troviamo il terzo ingrediente fondamentale per creare il cioccolato, ovvero il latte.
La polverizzatrice elvetica
Non siamo qui per spiegare come viene prodotto il latte, che si sa: dobbiamo dire grazie alle mucche che, come Filena (vedi box), hanno fatto anche oggi la loro parte: 12mila litri di latte davanti e 12mila dietro. Tanti ce ne stanno nell’autocisterna e nel suo rimorchio, che adesso sono alla Hochdorf Swiss Nutrition (nel Canton Lucerna) e stanno venendo svuotati. In ognuna delle fattorie – dove questa mattina presto l’autista si è fermato per caricare il latte – sono stati messi in provetta anche dei piccoli campioni. Ora l’autista li prende dal retro del suo veicolo e li porta al punto di accettazione, dove registra il nome dell’allevatore al quale appartiene ciascuno di essi. Non solo per calcolare le quantità esatte di latte, ma anche per verificare la composizione dello stesso e gli eventuali residui di antibiotici.
Di fatto, il latte contiene anche molta acqua, ciò che non è ideale per fare il cioccolato. La soluzione: solo latte, ma in polvere. L’azienda Hochdorf è specializzata proprio nella lavorazione di questo ingrediente fondamentale per produrre cioccolato svizzero.
Estrazione e concentrazione
La realizzazione del latte in polvere è molto simile a quella dello zucchero cristallizzato (che abbiamo visto nella precedente puntata dedicata al tema): estrazione del succo, concentrazione ed essiccazione. Solo che, contrariamente alle barbabietole da zucchero, il latte è già in forma liquida.
Per prima cosa, il latte viene standardizzato immediatamente dopo l’estrazione dalle autobotti: a seconda della stagione, del tempo e di ciò che le mucche mangiano, il loro latte ha infatti un differente tenore lipidico e proteico. La qualità della polvere finita deve però essere sempre la stessa; per questo i grassi e le proteine che sono stati rimossi tramite centrifugazione vengono poi aggiunti di nuovo fino a raggiungere le quantità standardizzate. «Nella fase successiva il latte viene pastorizzato, cioè riscaldato velocemente per uccidere i batteri, e quindi filtrato», spiega Vera Hug, tecnica alimentarista alla Hochdorf.
Niente di tutto questo è visibile, l’intero processo avviene in spessi tubi e in enormi contenitori d’acciaio che in un istante possono diventare roventi o gelidi. Il latte si fa vedere solo ogni tanto, in appositi vasetti tondi da ispezione. L’impianto è comunque un sistema chiuso e vi si può accedere solo indossando abbigliamento protettivo.
Ogni singola fase del processo si svolge in un capannone dedicato. In uno c’è un leggero ronzio, nel successivo un sonoro borbottio e in quello dove il latte viene concentrato rimbomba un rumore tremendo. Vera Hug, mentre noi tendiamo l’orecchio avvicinandoci alla sua bocca, ci spiega urlando che «adesso il latte viene sottoposto a vapore sotto vuoto». Alla fine, il contenuto di acqua è ancora del 50%, sebbene il lavorato risulti ben più denso rispetto allo stato iniziale: il latte della mucca contiene infatti l’87% di acqua.
Esiccazione: l’eroe nascosto
A questo punto, il concentrato può subire due processi: o viene spruzzato con aria molto calda essiccandosi in piccoli fiocchi (operazione chiamata polvere spray); oppure viene steso uniformemente su un rullo riscaldato a vapore dove essicca nel giro di 3,5 secondi, assumendo la forma di una pellicola (ci ricorda la carta da parati giallina) che viene poi raschiata e triturata. La leggera colorazione dipende dal fatto che il latte viene caramellizzato dal calore. Ciò conferisce al latte in polvere un gusto dolciastro, e al cioccolato una scioglievolezza nettamente maggiore. Non stupisce infatti che i produttori svizzeri di cioccolato puntino sulla polvere ottenuta attraverso il secondo processo, con i rulli, nonostante la produzione sia più onerosa.
«Nel cioccolato il latte in polvere è invisibile», dice Vera Hug, che nel locale con i rulli rotanti può di nuovo parlare normalmente. «Ma per il gusto è fondamentale. Per me è un piccolo, grande eroe nascosto.» E sorride amorevolmente.
Maîtres chocolatiers: il sogno di tutti i bambini
Come si inventa una nuova tavoletta deliziosa? E come la si produce poi in grandi quantità? Le risposte ci vengono date durante una visita alla Delica, il posto più profumato di tutta la Svizzera e casa del cioccolato Frey
Tutto ha inizio nel laboratorio di sperimentazione della Delica, a Buchs, vicino Aarau nel canton Argovia. Solo ciò che riesce convincente qui ha una possibilità di essere prodotto in grandi quantità per la Migros. Poco più di un anno fa, la Migros aveva commissionato un nuovo prodotto di cioccolato: la linea di tavolette Frey «Côte d’Ivoire», per la quale si sarebbe usato esclusivamente il cacao della cooperativa Necaayo. «Tutto chiaro», risposero allora Rahel Merkofer e Markus Müller (sviluppatori di prodotti alla Delica), prima di rinchiudersi nel laboratorio di sperimentazione. Che è come una fabbrica di cioccolato dentro la fabbrica di cioccolato. Qui, con pentoloni, cucchiaioni, e chili su chili di cacao, zucchero e latte in polvere, i due hanno potuto fare ciò che sogna ogni bambino: inventare un cioccolato. E mangiarselo. Per settimane.
Che la nuova collezione dovesse comprendere un cioccolato al latte, era chiaro. E anche il fatto che dovesse prevederne uno fondente. Per il resto i due maîtres chocolatiers avevano carta bianca. Grazie a questo presupposto hanno dunque aggiunto del caramello. E del sale. E noci. E limone. E more di gelso. E più latte. E meno zucchero.
Alla fine, dopo più di cento ore di deliziosi esperimenti, hanno creato sette differenti varietà. Di queste, la Migros ne ha scelte quattro. Quella con more di gelso è rimasta fuori. A Markus Müller è dispiaciuto? «Certo! Ma il lavoro funziona così, bisogna accettarlo», dice ridendo il cinquantatreenne. «E le quattro varietà scelte sono tutte superbe». D’altronde sta già lavorando su qualcosa di nuovo: «Ma non posso parlarne, è un progetto segreto!». Markus incrocia le robuste braccia sul petto come a dire che ogni ulteriore domanda sarebbe inutile.
Dopo che la Migros ha dato l’ok, la «Côte d’Ivoire» è entrata in produzione. Che comincia proprio dai semi di cacao consegnati da Amsterdam (vedi articolo su «Azione» del 15 maggio) che poi vengono liberati scrosciando fragorosamente dai loro sacchi da una tonnellata alti come un uomo. I semi vengono quindi sterilizzati mediante calore e sgusciati a macchina, fase che porta alla luce i cosiddetti nibs, il puro cacao. Il cacao ha un gusto amaro, ma piacevole e di una certa eleganza, che ricorda solo da lontano il cioccolato. Dopo la tostatura è invece l’inverso: l’amarezza va in secondo piano mentre la «cioccolosità» domina la scena. Infine, i nibs vengono triturati finemente.
A questa tritura vi si incorporano lo zucchero, il burro di cacao e il latte in polvere, nelle dosi precise stabilite da Merkofer e Müller. Si ottiene così il cosiddetto materiale da laminare, che si lascia per qualche ora in una conca. Nell’accezione cioccolatiera, il termine conca viene dallo spagnolo concha col significato di «conchiglia» perché le vasche che si usavano un tempo per laminare la massa ricordavano delle conchiglie. Il concaggio serve a dare al cioccolato la sua consistenza morbida e cremosa e per far fuoriuscire le sostanze amare.
In un tripudio di aromi inebrianti, il cioccolato concato viene infine versato negli stampi delle tavolette, che vengono poi scossi per distribuire uniformemente la massa. Dopo quaranta minuti nella torre di raffreddamento si dà un altro colpetto e le tavolette da 100 grammi cadono belle e pronte dai loro stampi. L’operatore di linea di produzione, Thomas Exner, è al nastro trasportatore e sta togliendo le tavolette con delle imperfezioni. Ma in base a quale criterio? Le tavolette non sembrano tutte uguali? «Decisamente no», sogghigna e ne toglie un’altra dal nastro, «qui c’è un punto un po’ scuro. Capita perché prima abbiamo fatto cioccolato fondente». Un occhio inesperto non l’avrebbe mai notato. Ciò che invece non soddisfa quello di Exner, viene riposto in una sacca sterile, rifuso e poi riutilizzato.
Al piano superiore, dove un ascensore a paternoster trasporta le tavolette per l’imballaggio, opera un gruppo di donne non meno meticolose: ciò che la macchina non ha piegato o incollato con precisione millimetrica, loro lo riaprono e lo rimettono a posto. Alla fine, il macchinario mette venti tavolette in una scatola, o meglio, le avvolge in un cartone bianco e ci pone sopra un’etichetta con la data di produzione. Poi le scatole tornano con un altro piccolo ascensore al piano terra e vengono disposte su una paletta. La paletta viene poi caricata su un vagone ferroviario che viene trainato da una locomotiva di manovra fino al vicino villaggio di Suhr, al centro di distribuzione Migros. Da qui, la «Côte d’Ivoire» arriva nelle settecento filiali del Paese.