Forse c’è una sfida, in questo frangente storico, che le supera tutte. Nell’epoca in cui viviamo, in cui il cosiddetto «buco estivo» (quel languido periodo stagionale in cui, vuoi per le vacanze, vuoi per pigrizia, le notizie diventano una – peraltro salubre – eco lontana) non è che un ricordo, le notizie riportate dai media sono un susseguirsi disordinato di eventi in cui politica e gossip si intrecciano alternati a scienza e guerre, contendendosi l’attenzione del pubblico con i social media, dal canto loro altrettanto attivi e, se possibile, ancora più caotici. In una narrazione (a tratti isterica) senza soluzione di continuità, come in un gioco di anelli concentrici, negli ultimi anni siamo passati dalla pandemia alla guerra e a tutta una serie di crisi, in uno scenario in cui però, giorno dopo giorno, è venuto a palesarsi con frequenza sempre maggiore il tema del clima. O ancora, della catastrofe ambientale, come qualcuno preferisce chiamarla, quando non si arriva, addirittura, a evocare l’apocalisse.
D’altronde, come raccontare, o peggio ancora, spiegare, la natura di una cella temporalesca (in questi giorni siamo costretti a farci tutti un poco meteorologi) come quella che ha colpito La Chaux-de-Fonds? O il dramma dell’isola di Rodi (tanto per citare uno fra le decine di incendi che impazzano nel sud dell’Europa e nel nord dell’Africa)? O una Milano che si è risvegliata devastata, con gli alberi riversi al suolo e canali d’acqua in cui galleggiavano pezzi di ghiaccio? Oppure la Sicilia, in balia di blackout continui per il surriscaldamento dei cavi sotterranei? I bollettini ormai si sovrappongono, in un’infilzata di record che ha dell’incredibile.
Ma, paradossalmente, la sfida maggiore non è data dagli sforzi sovrumani richiesti per spegnere gli incendi o per sopravvivere a oltre 40° gradi, senza contare la paura (il «New York Times» ha scritto come sempre più spesso il terrore della crisi ambientale finisca negli studi degli psicanalisti), quanto più dal sapere raccontare questa emergenza totale e totalizzante, prima e unica a memoria d’uomo. La stampa ci prova, ma con i mezzi tradizionali, che forse in questo caso non sono i più efficaci.
Gridare al sensazionalismo e sbattere, giorno dopo giorno, un nuovo record in prima pagina, in un momento in cui l’urgenza principale è rappresentata da una riflessione collettiva il più possibile serena e ponderata, rischia non solo di confondere lettrici e lettori, ma di ricreare quella situazione dicotomizzata che avevamo ben conosciuto durante il periodo pandemico, in cui una profonda crepa si è insinuata nelle società democratiche, di colpo spaccate tra negazionisti e non.
Se l’accuratezza giornalistica fosse tenuta più da conto, sapremo ad esempio che non sono tanto i roghi a doverci preoccupare (come ha sottolineato il meteorologo svizzero Jörg Kachelmann, l’autocombustione è impossibile al di sotto dei 200°-250° gradi), quanto più il surriscaldamento delle acque dei mari, oppure la pianificazione scriteriata del territorio con la generosità cementizia che conosciamo, o ancora, l’ampliamento di strade e gallerie, votate a un’accoglienza sempre più importante di volumi di traffico.
Una sana presa di coscienza, primo indispensabile passo per azioni secondarie come la salvaguardia della biodiversità e del territorio, tanto per fare un esempio, deve per forza passare per una narrazione equilibrata e non gridata, altrimenti – e più che di un rischio, parliamo di un dato di fatto acclamato – proprio nel frangente storico in cui il genere umano necessita maggiormente di creare un fronte unito e compatto, finiremo per ritrovarci nuovamente con una società spaccata in due, come ai tempi del Covid. Ma con una grande, insormontabile differenza: contro la crisi climatica, di vaccini (efficaci o meno, questa è un’altra storia), proprio non ne esistono.