Nel corso degli ultimi anni, i media internazionali hanno cominciato a interessarsi a un fenomeno recentemente sviluppatosi soprattutto nei Paesi anglosassoni, e che sembra esercitare particolare fascino su una società occidentale sempre più impegnata a interrogarsi sulla sua scarsa natalità; infatti, sebbene la questione non riguardi i bambini, bensì delle «semplici» bambole, il quesito alla base di questa tendenza appare suggestivo: cosa succede se dei normali bambolotti vengono «ricondizionati» con cura artigianale, così da divenire attraenti anche per gli adulti e dare vita a un florido mercato di nuovi acquirenti?
È proprio quanto accade oggi con i cosiddetti reborn babies, nome impiegato per distinguere questi specialissimi bambolotti dai normali prodotti analoghi acquistabili nei negozi di giocattoli. I reborn, realizzati perlopiù in morbido silicone, sono infatti caratterizzati da un realismo assoluto, al punto da poter essere facilmente scambiati, a un primo sguardo, per bambini in carne e ossa; e per i clienti che li ordinano a caro prezzo presso i molti professionisti specializzati – spesso impegnati a realizzare esemplari personalizzati su commissione – possono divenire, a tutti gli effetti, reali quanto un figlio.
Del resto, basta una rapida esplorazione su social network quali YouTube e TikTok per imbattersi in decine di canali dedicati alla minuziosa documentazione delle gesta di donne, e perfino intere famiglie, dedite ad accudire i loro reborn come se fossero bimbi reali, spesso mettendo in scena veri e propri «giochi di ruolo» per aspiranti genitori, che, oltre all’acquisto di intere nurseries e guardaroba infantili, prevedono rigorose routine quotidiane a misura di pupo – dando infine vita a mini-nuclei famigliari basati su questi preziosissimi oggetti del desiderio.
È chiaro che un fenomeno di questo tipo si presta a facili interpretazioni, e perfino a demonizzazioni, di carattere antropologico e sociologico; infatti, benché una cospicua fetta della cosiddetta «comunità reborn» non s’identifichi affatto con il ruolo di «genitori al silicone» e preferisca prendere le distanze dalla tendenza del roleplay per limitarsi all’attività di semplici collezionisti, in molti si sono interrogati su quale sia la linea di demarcazione tra il semplice hobby e una forma di proiezione quantomeno rischiosa.
Tuttavia, se è vero che molti tra coloro impegnati nella gestione dei reborn si aspettano che i loro bambolotti ricevano più considerazione di quella normalmente riservata a un giocattolo, altri considerano quest’interesse un semplice passatempo; tanto più che, nonostante le pompose teorie degli psicologi di turno, non tutte le persone (principalmente donne mature) dedite a tale hobby sono reduci dalla perdita di un bambino, o hanno dovuto rinunciare alla maternità.
In realtà, la ricerca dimostra che la maggior parte delle madri di reborn non ha una storia traumatica alle spalle, anzi: non sono rari i casi di coppie che coinvolgono i propri «veri figli» in questa passione, magari spingendosi fino a trattare i bambolotti come loro reali fratelli o sorelle.
Anche per questo, l’opinione pubblica è perlopiù portata a ritenere che l’energia e il denaro spesi nel prendersi maniacalmente cura di una bambola (un reborn di alto livello può arrivare a costare svariate migliaia di dollari) potrebbero essere spesi dai «genitori» in modo più produttivo e altruistico – ad esempio, adottando un bambino a distanza tramite una delle tante associazioni benefiche che offrono questa possibilità, o dedicandosi a un’attività di volontariato infantile; oppure, addirittura, prendendosi cura di un minore in affido. E sebbene questa possa definirsi una valida osservazione, sembra tuttavia ignorare il fatto che, a volte, il desiderio di maternità può palesarsi in assenza delle condizioni ideali a realizzarlo – il che può causare una frustrazione in alcuni casi anche molto opprimente.
Non è infatti un caso che il bacino di utenza maggiore nelle prenotazioni di reborn riguardi i neonati, ovvero bambini così piccoli da essere totalmente dipendenti dalle cure materne; in questo caso, l’atto di prendersi cura del bambolotto implica innanzitutto un contatto tattile prolungato, dal quale deriva un conforto pressoché immediato, fortemente connesso al rilascio delle endorfine nel corpo – un po’ come quando ci si prende cura di un animale domestico e il solo atto di accarezzarlo procura un senso di benessere diffuso nel proprietario.
In tal senso, la gestione del «bambino» può essere considerata come (e soprattutto) a beneficio della madre, che ne trae una gratificazione e un senso di sé dei quali ha, evidentemente, un grande bisogno; ma questo non significa che la medesima persona abbia la piena disponibilità a prendersi cura di un bambino reale, o sia davvero in grado di gestire tutte le necessità ed esigenze pratiche, fisiche, emotive e perfino economiche che la sua presenza in casa comporterebbe. Allo stesso tempo, è stato dimostrato che persone sofferenti da gravi disturbi d’ansia (così come gli anziani affetti da Alzheimer o altre malattie degenerative) possono trarre grande conforto dall’occuparsi di una o più di queste bambole.
E se ogni considerazione relativa alla passione per i reborn dovrebbe comunque rimanere avulsa dal giudizio – come del resto si confà a qualsiasi attività non risulti nociva a chi la pratica, né a nessun altro – è, in fondo, inevitabile che, quando e se portato agli estremi, il fenomeno possa sollevare dubbi o preoccupazioni. Molti sembrano volutamente, però, ignorare un dettaglio cruciale: ovvero che, indipendentemente dal contesto, qualsiasi hobby si traduca in un eccessivo investimento di tempo e risorse tradisce spesso una grande solitudine di fondo. E forse, il reale obiettivo, per una società che ama definirsi civile, dovrebbe essere innanzitutto quello di trovare modi funzionali per lenire tale solitudine, piuttosto che lamentarne retroattivamente le possibili conseguenze.
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