Chiesa e abusi: «Si continua a insabbiare»

by Claudia

Sono un migliaio, precisamente 1002, i casi di abuso e di violenza sessuale documentati nel contesto della Chiesa cattolica svizzera dal 1950 ai nostri giorni. Ma con la convinzione che si tratti solo della punta dell’iceberg. Perché, insieme, emerge un atteggiamento che vedeva le accuse «sistematicamente nascoste o banalizzate». E tuttora ben poco sembrerebbe cambiato. È la fotografia sconcertante emersa settimana scorsa con la presentazione del Rapporto sul progetto pilota per la storia degli abusi sessuali nel contesto della Chiesa cattolica, realizzato da un team di ricercatori dell’Università di Zurigo (guidato da Monika Dommann e Marietta Meier) su mandato della stessa Conferenza dei vescovi svizzeri. Un’indagine indipendente, andata avanti per un anno negli archivi delle diocesi elvetiche, da cui è emerso uno spaccato delle dimensioni del fenomeno ma anche della leggerezza con cui troppo a lungo questo problema è stato affrontato dai vertici della Chiesa cattolica. Sono stati accertati i casi di 510 persone accusate (quasi tutti uomini, in buona parte sacerdoti) e 921 vittime (nel 74% dei casi minorenni). Non solo numeri, ovviamente, ma storie drammaticamente concrete. Come quella di Adriana (nome di fantasia) di origine italiana, del Cantone di Neuchâtel, cresciuta in una famiglia molto devota e devastata all’età di 9 anni, negli anni Ottanta, da «toccamenti molto inappropriati da parte del prete». Né lei né sua madre osarono sporgere denuncia, ma altri sì. «È sempre stato scagionato da qualsiasi illecito», ha anche fatto una «brillante carriera», ha raccontato in una testimonianza pubblicata sul sito della Chiesa cattolica svizzera. Aggiungendo: «Non riuscivo, e non riesco ancora oggi, a fidarmi pienamente delle persone, soprattutto degli uomini. Ho tentato il suicidio, ho attraversato una fase di autodistruzione».

Il quadro è evidentemente molto grave. Ma a renderlo ancora più pesante è il fatto che – poche ore prima della pubblicazione di questo Rapporto – è emersa anche la notizia di un’indagine vaticana in corso, che chiama in causa non il passato, ma la gestione attuale delle denunce nelle diocesi svizzere. A renderla nota è stato il «SonntagsBlick», spiegando che a farla scattare è stato proprio un sacerdote della Chiesa cattolica svizzera, Nicholas Betticher, già vicario generale della diocesi di Losanna, Ginevra e Friburgo ai tempi del vescovo Bernard Genoud. A essere chiamati in causa con l’accusa di aver commesso abusi sono un componente della Conferenza episcopale e tre sacerdoti, ma nella sua lettera Betticher fa i nomi anche di altri vescovi svizzeri – in carica ed emeriti – che avrebbero insabbiato alcuni casi. A partire dalla lettera, già a giugno il Vaticano ha affidato un’indagine preliminare sulla vicenda al vescovo di Coira, mons. Joseph Bonnemain (lo stesso presule che aveva commissionato lo studio all’Università di Zurigo), mentre i casi di abuso citati nella lettera sono stati segnalati ai procuratori competenti, come previsto dalle norme stabilite da Papa Francesco. Adesso che la vicenda è venuta allo scoperto, però, Betticher – in un’intervista rilasciata sempre al sito internet della Chiesa cattolica svizzera – ha spiegato le ragioni del suo gesto, sostenendo che tuttora nelle diocesi sarebbe diffuso un atteggiamento che mira più a insabbiare lo scandalo che a offrire giustizia alle vittime.

«Anche oggi – ha dichiarato Betticher – quando ci sono commissioni (per la prevenzione degli abusi sessuali e la raccolta delle denunce, ndr.), si fa ben poco. Si limitano a trasmettere i casi che vengono segnalati al pubblico ministero. E quando quest’ultimo dichiara che il caso è prescritto, viene comunque archiviato nelle diocesi. Eppure il diritto canonico consente di revocare la prescrizione. Perché non lo si fa? Perché così potremmo scoprire verità che non vogliamo sapere. È un tipo di occultamento che viene fatto consapevolmente», conclude l’ex vicario della diocesi di Losanna, Ginevra e Friburgo. «E che non posso più accettare». In tutta la vicenda un capitolo specifico riguarda anche il Canton Ticino: in apparenza, dai dati raccolti dall’Università di Zurigo, risulterebbe poco toccato nel numero di casi accertati. Ma a influenzare il quadro probabilmente è stato un altro fatto grave emerso: negli archivi della diocesi di Lugano vi sono state distruzioni di documenti che potrebbero averne eliminato tracce. Le ricercatrici hanno trovato prova di un’operazione di questo tipo in una lettera scritta nel 1997 dall’allora vicario generale Oliviero Bernasconi, in cui si racconta che negli ultimi mesi di vita il vescovo Eugenio Corecco avrebbe chiesto a un sacerdote di eliminare gli scritti conservati nel suo ufficio privato riguardanti i preti. Interpellato nell’ambito dell’indagine, il collaboratore in questione riferisce di non aver distrutto documenti riguardanti casi di abuso, sostenendo che quelli sarebbero stati conservati nell’archivio segreto della diocesi. In un altro scritto del 1999, però, un altro sacerdote riferisce all’allora vescovo Giuseppe Torti di aver fatto quanto gli era stato chiesto e cioè di aver distrutto – secondo lui «per misericordia» – della documentazione riguardante i preti in un arco temporale di un secolo.

Questo aspetto spinoso è stato affrontato in un’apposita conferenza stampa, convocata dalla diocesi di Lugano il 13 settembre, alla presenza dell’amministratore apostolico mons. Alain de Raemy e dal suo delegato mons. Nicola Zanini. È stato riconosciuto che – pur ammettendo il diritto canonico alla distruzione di documenti dagli archivi – viene richiesta comunque la creazione di un registro di quanto eliminato, cosa che in questo caso non venne fatta e lascia dunque aperti i sospetti. L’incontro con la stampa è stato inoltre l’occasione per riferire che la commissione locale di esperti sugli abusi sessuali – istituita dal vescovo Pier Giacomo Grampa nel 2009, ma di fatto convocata solo dal suo successore Valerio Lazzeri nel 2016 – ha ricevuto in questi anni la segnalazione di appena 5 vittime «che sono state accolte e ascoltate con attenzione», ha precisato la diocesi. Anche in questo caso, però, la convinzione diffusa è che quelle reali anche a Lugano siano molte di più. È stato lo stesso vescovo De Raemy a riconoscerlo: «Non bastano semplici scuse per superare questo passato su cui non si può e non si deve mettere una pietra sopra», ha dichiarato. «Non possiamo non metterci davanti alla grande sofferenza di chi ha subito questo trattamento dalla Chiesa. È un dovere di giustizia verso le vittime rimaste sole con la loro indescrivibile sofferenza». Per questo motivo il vescovo ha annunciato che visiterà ogni vicariato della diocesi mettendosi personalmente a disposizione di chi desideri denunciare violenze subite, in qualsiasi periodo, e che ora trova la forza di raccontare. «Per chi invece non volesse più avere a che fare con la Chiesa, e si capisce – ha aggiunto – lo invito a rivolgersi al Servizio per l’aiuto alle vittime di reati del Cantone».

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