I cattivi seminatori

Da cattolico laicamente critico, negli ultimi giorni mi arrovello. Mi chiedo come sia possibile che la stessa religione, istituzione, gigantesca realtà materiale-spirituale che chiamiamo Chiesa cattolica possa avere generato nel corso di due millenni di storia il meglio e il peggio dell’umanità: Francesco d’Assisi con la sua poetica adesione a «sorella povertà» e un Papa libertino e malato di potere come Alessandro VI, il dottissimo Tommaso d’Aquino e il feroce Torquemada, i parroci che strappano dalle grinfie della malavita i «picciotti» e i preti pedofili.

Già: gli ecclesiastici che hanno «sposato» a un certo punto della propria esistenza la scelta di vivere per il bene del prossimo seguendo l’esempio di un Signore che predicava amore e giustizia e per questa ragione è stato crocifisso. Invece sono stati loro a crocifiggere troppi innocenti sulla croce della vergogna e dell’abuso, dimenticando, anzi rovesciando i pilastri fondanti della loro missione; amore e giustizia, appunto. Com’è possibile questa dicotomia morale? Questa vertiginosa spaccatura dentro le anime di chi dovrebbe curarle, le anime, confortarle, aprire loro gli orizzonti dell’eterno e della felicità, la promessa più ardita e profonda che nessuna religione laica possa garantire?

Oggi in Svizzera (ne parla Bernardelli a pag. 29), ieri in Francia l’altro ieri in America e domani chissà dove, tra le parabole ecclesiali contemporanee, purtroppo, continua a ripetersi quella dei cattivi seminatori. Diventa sempre più difficile per i nostri preti, la maggioranza dei quali con le mani e la coscienza pulite, salire all’altare e predicare la via della redenzione dai pulpiti opachi di una nomea indegna. No, non li invidio quei preti che da oggi in avanti (o da anni) non osano dare una carezza a un bambino per timore di essere considerati «uno di quelli là». E invece sono solo giovanotti o signori in cotta o clergyman che organizzano tornei sui campetti dell’oratorio e guidano fiaccolate sempre meno frequentate verso cappelle e santuari locali.

Ma invidio ancor meno quelli che fino ad oggi sono stati i grandi dimenticati di questa laida storia: i ragazzini, le ragazzine, gli adulti abusati all’ombra di un centro parrocchiale, negli scantinati di un collegio religioso o nei dormitori di un seminario. Per loro questo non è un giorno di gloria, al massimo è l’inizio di un doloroso cammino verso il riconoscimento di un’onta vissuta col timore di parlare, di non essere creduti, di avere in un qualche modo incoraggiato i propri assalitori. Bene che ora siano considerati vittime innocenti e che possano denunciare i propri abusatori. Troppo tardi per restituirgli la leggerezza e la felicità rubate. Certo, ci rallegriamo per quella che sembra essere una decisa svolta verso la trasparenza, sorretta dalla Chiesa stessa, dal Papa in persona che ha più volte espresso profonda «vergogna» e ribadito la politica della «tolleranza zero» nei confronti di quei «ministri sacri che dovrebbero essere le persone più degne».

Ma per chiudere il cerchio della giustizia – divina o umana che sia – occorre che la Chiesa faccia un ulteriore passo al di là dei mea culpa e delle commissioni interne d’inchiesta. Occorre che i crimini (così si chiamano) dei suoi membri vengano subito gestiti da una magistratura laica ed esterna. Solo così si possono evitare gli insabbiamenti, i «sì, però…» che fanno sparire i documenti d’accusa e le testimonianze scomode per la Chiesa. Quanto sono credibili i giudici che giudicano sé stessi (lo penso anche per i tribunali militari)? Lo scandalo di oggi non sono solo gli abusi, ma gli occhi chiusi su di essi e una concezione della «misericordia» nei confronti dei «peccatori» che a volte rasenta la complicità e dimentica sempre le vittime.

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