Latrati d’ogni tipo s’innalzano attorno ai migranti. Latrati, perché c’è qualcosa di animale e di intimamente ferito che urla prima, durante e dopo gli sbarchi a Lampedusa e in ogni terra emersa, su cui – se ci arrivano – arrancano i corpi sfibrati dei cercatori di vita, anche solo qualche boccata di vita, l’illusione di respirarla, braccati dalle bombe e dai coltelli, dagli arruolatori di bimbi guerrieri, dalle mani callose di uno sposo che porta nel talamo una bambina ignara, dalla miseria che incenerisce il futuro, dalla tortura che spezza le ossa ed estorce denaro. Tutti santi perseguitati? Tutti furbetti o criminali? Donne e uomini in fuga. Persone come noi. Punto.
È l’urlo asciutto di chi si spegne nel deserto, buttato giù dai furgoni corsari che attraversano l’Africa tra nuvole di polvere puntando ai Paesi costieri da dove s’imbarca la fantomatica nave dei sogni. Salvo che, transitoriamente, non ci scoppino terremoti o non vengano devastati dalle alluvioni. L’urlo digrignante dei passatori che premono la lama sul collo perché i soldi non bastano, ma poi, «dài tesoro, che ci si può arrangiare: sei giovane, bella…» (se avete nervi saldi andate a leggervi il reportage di martedì scorso di «Le Monde» sugli stupri delle migranti arrivate a Marsiglia).
Sono le grida mute degli annegati, quasi 300 solo i bambini consegnati dalle burrasche ai fondali e alle alghe del Mediterraneo dall’inizio del 2023. Ci sono anche le urla più gioiose di chi alla fine «ce la fa», sbarca sul serio, scende a uno a uno, in infradito, i gradini arrugginiti della bagnarola sulla quale è rimasto pigiato, impaurito, minacciato, gli si sono anchilosati gli arti per il freddo, o ha addirittura partorito prima di raggiungere la propria personale America. Guardi la tv e te li aspetteresti più felici in un momento del genere, gli sbarcati. Qualcuno è troppo stanco per festeggiare, qualcuno ne ha perso la voglia strada facendo, quasi tutti ignorano che la terra promessa li guarda con un occhio buono e uno cattivo.
Quello buono è l’occhio del cuore, quello cattivo li osserva di sbieco, come si fa con gli scarafaggi che spuntano in veranda. E non è colpa di nessuno, soprattutto non delle forze dell’ordine, dei sanitari e dei volontari anche loro ammirevolmente sfiniti, se non sempre c’è qualcosa da mangiare o da bere, se non è avanzata una coperta su cui dormire, un bagno davanti al quale la coda finisca in fretta. Questo era Lampedusa qualche giorno fa. Poi smisteranno corpi e anime in altri centri, l’emergenza verrà diluita qua e là, smarrendosi tra numerosi altri dossier geopolitici.
L’urlo dei migranti da silenzioso tornerà assordante più tardi, nelle campagne di voto nazionali e internazionali. Non uscirà dalle loro gole, bensì da quelle di chi li attacca o di chi li difende. Siccome l’idea di aiutarli nei loro Paesi è un’utopia che spesso svanisce tra ipocrite promesse e pozzi di corruzione in loco, il mondo si divide tra la politica del muro respingente – rimpatriamoli tutti; facciamo il blocco navale; facciamo che i Paesi che non li accolgono paghino una cifra per ogni respinto e creino un fondo per i rimpatri – e la politica delle porte aperte: creiamo i corridoi umanitari e trattiamoli come fratelli.
Da umano solidale, preferisco questa scelta, ma senza ingenuità: aggiungi un posto a tavola. Ma solo alla tavola dei primi Paesi di sbarco? E gli altri Paesi europei saranno d’accordo di spartirseli o di pagare il conto in parti proporzionali all’aiuto dato? Penso ai migranti immaginando un sottofondo di onde che vanno e che vengono, ma non trovo risposte. Solo il silenzio dei morti e le grida dei politici che sui destini dei nostri vicini in fuga tengono un occhio buono e uno cattivo. E a seconda di dove guardano si giocano un posto in Parlamento (non solo europeo) e una partita invisibile con la propria coscienza.