Sport - Nella sua autobiografia «La bellezza non ha prezzo», l’ex tecnico del Lugano Zdeněk Zeman si racconta
Fumatore seriale, bocca molto larga, capace di far subire valanghe di goal alle sue squadre, Zdeněk Zeman ha anche dei… difetti. Il suo nome è stato onorato persino dalle nostre parti, avendo tenuto, pur solo per un anno, le redini del Lugano. Un nome, il suo, che si appoggia sul latino Sidonius, da cui provengono le radici della parola ceca zidati, che significa «costruire» e «creare»: Zdeněk Zeman può essere fiero di far parte della rosa degli allenatori di spessore, pur non avendo mai vinto titoli di livello assoluto.
«Il boemo», così chiamato per la sua provenienza, è il portavoce dello sport autentico, quello formato da tre tasselli fondamentali: lavoro, riposo e sana alimentazione. È pure considerato uomo di poche parole, tant’è che a Palermo lo chiamavano «U mutu» (il muto). In verità, Zeman parlava, ma al momento giusto e ponderando ogni frase.
Pubblicata alla fine del 2022 da Rizzoli, la sua autobiografia La bellezza non ha prezzo (scritta a due mani con il giornalista Andrea Di Caro) contiene un percorso diviso in più capitoli che, da una parte donano al lettore l’idea di progredire cronologicamente nella carriera dell’allenatore oltre che nella sua vita privata, e dall’altra si fanno portavoce di un tipo di bellezza ogni volta diversa.
Zdeněk nasce nel 1947 a Praga e vive i suoi primi anni di giovinezza nella capitale della Repubblica Ceca assieme alla famiglia e in una casa troppo piccola per tutti i suoi componenti: lui e la sorella Jamila, infatti, dormono in cucina su un letto e una branda, «come quelle da campo per i soldati», mentre i genitori, Karel Zeman e Květuše Vycpálková, dormono in salotto.
Il clima non facile di quegli anni è anche condizionato dalle tensioni politiche: «Soffiava il vento della Guerra Fredda». Ciononostante il giovane boemo riesce ad alimentare la sua passione per gli sport, evadendo da casa e invadendo qualsiasi campetto sportivo. Il piccolo Zeman cresce con un padre medico spesso assente da casa per lavoro, oppure immerso nella stesura di lunghe relazioni. Dai pochi momenti che trascorrono insieme, tuttavia, impara valori fondamentali che lo accompagneranno per l’intera vita: «La cultura del lavoro, svolto con passione, onestà, abnegazione; la voglia perenne di approfondire e applicarsi; la convinzione che i risultati si ottengono solo quando alle qualità si aggiunge il sacrificio».
È al nonno Přemysl, invece, che Zeman deve tutta la riconoscenza per la scoperta del mondo del pallone, perché lo porta ogni domenica pomeriggio allo stadio a vedere le partite delle squadre della città: Slavia, Sparta, Dukla, Bohemians.
Proprio nello Slavia, Zeman muove i suoi primi passi da calciatore professionista nel settore «primavera»: è, sì, considerato un centrocampista «bravino», ma non sembra essere in grado di poter seguire le orme dello zio Čestmír Vycpálekci che, proprio in quella squadra, si era messo in mostra nel 1938 come fuoriclasse. La carriera dello zio sarà poi interrotta per otto mesi nel 1944 a causa dell’imprigionamento nei campi di concentramento di Dachau. Ritornato in gioco, lo zio riprenderà a mietere successi nello Slavia Praga e nella Juventus, come narrato nel capitolo La bellezza delle radici.
«Tutto ciò che ho fatto è stato mosso dal concetto di bellezza e dal sentirmi appagato nel trovarla o nel cercarla»
Dopo il trasferimento dello zio in serie B al Palermo, Zeman lo raggiunge nel 1966. Un espatrio non facile, sotto regime, che avviene solo grazie ad alcuni contatti del padre che gli procurano un permesso speciale. Prevede di restare all’estero per tre estati, ma finisce per stabilirsi definitamente in Italia dove frequenta «l’università dello sport». Nello stesso periodo matura le prime esperienze da allenatore in forza a squadre come la Cinisi o la Bacigalupo, anche se all’epoca si sente più preparatore atletico. La svolta avrà luogo con le giovanili della squadra rosanero, per le quali arruola «picciriddi» direttamente dalla strada.
Il percorso è tortuoso, non solo per l’ambiente del calcio, ma anche da un punto di vista emotivo, dato che nella sua Praga non potrà tornare ancora a lungo a causa del regime comunista.
Ma sarà a Licata, categoria C2, che nascerà la vera essenza del gioco «zemaniano», anche meglio conosciuto come «Zemanlandia»: costruzione dal basso (non un caso, vista l’etimologia del suo nome), inserimenti, sovrapposizioni, triangolazioni, fuorigioco altissimo, squadra corta e un marchio di fabbrica come il 4-3-3. Una trama di gioco così complessa ma allo stesso tempo efficace non è cosa di tutti i giorni, anzi, il canovaccio di quei tempi è spesso e volentieri «catenaccio e contropiede».
Nasce a Foggia, invece, qualcosa di unico, un legame forte e reciproco tra Zeman e i fan rossoneri, indimenticato fino a oggi. La scintilla scaturisce dal successo, che gli sarà per sempre riconosciuto, ma anche dal calore della gente, da una terra baciata dal sole, dal mare e, forse, dalla sintonia col presidente Casillo. Zeman tornerà quattro volte in Puglia come allenatore, ma solo dopo le esperienze al Parma e al Messina. Sarà tre anni più tardi a Foggia che otterrà una delle sue più grandi soddisfazioni grazie a uno straripante «Beppe» Signori (autore di 14 goal) e a una squadra che gioca a memoria, velocemente, creando azioni corali, in maniera spregiudicata, lasciando il compito di difendere unicamente all’avversario. È l’anno (stagione 1991-1992) della promozione in serie A, che farà la fortuna di società e di tifosi.
Una conquista ottenuta grazie alla dedizione, ai suoi allenamenti sfiancanti e a una squadra che ormai ha acquisito tutti i meccanismi e che Zeman sente sua. I giocatori non temono nessuno, nemmeno le formazioni che schierano Gullit, Del Piero, Batistuta, Baggio e altri campioni: la loro forza risiede nel collettivo e nell’approccio alla partita, con un pressing sfiancante che porta gli avversari a sragionare. La stagione si chiude a 35 punti e al nono posto in classifica, ma per il Mister, la più bella soddisfazione dell’anno è la convocazione in Nazionale di Baiano e Signori.
«Sdengo» – così è chiamato il boemo dal patròn rossonero – sceglie Roma per il salto di qualità. Le offerte non mancano dopo le stagioni sontuose tra serie B e serie A, ma si accaserà là dove i colori delle sciarpe sono biancocelesti. Per l’allenatore ceco la culla della Lazio è la più bella del mondo, assieme a Praga e Palermo, poiché la città eterna rimane sempre magica, seppur «zavorrata dai problemi, caotica, poco organizzata, piena di traffico, un po’ sporca…». Alla Lazio ritroverà anche il suo pupillo, Giuseppe Signori, insieme al suo ex compagno, acquistato dall’Atalanta in balia della retrocessione in serie B, Roberto Rambaudi. Insieme a Pierluigi Casiraghi, la coppia chiuderà la stagione con il miglior attacco, caratteristica comune di tutte le squadre allenate da Zeman.
Tra derby accesi, giovani sulla rampa di lancio come Alessandro Nesta, e colpi di mercato degni del Pallone d’oro alla Pavel Nedvěd, ecco che nel 1997 accade l’inimmaginabile. Quattro sconfitte nelle prime otto partite, e a susseguirsi un’alternanza di vittorie e pareggi. Il problema cardine sono l’identità e l’ideologia di gioco della squadra, non più così chiare come agli inizi. Zeman viene esonerato. Per i tifosi laziali, ora, inizia la parte peggiore: il club che lo aveva desiderato – quello sull’altra sponda del Tevere, dove prima di ogni partita risuonano le note dell’inno di Antonello Venditti che fanno cantare a squarciagola ottantamila tifosi – lo assume. Ebbene sì, Zdeněk Zeman diventa l’allenatore della Roma. Alcuni tifosi laziali vivono con rancore il trasferimento, altri supportano la scelta e rimangono così affezionati al Mister da essergli grati per tutto quello che ha portato sul campo.
Sarebbe banale riassumere quegli anni ai piedi della Lupa con la parola «Totti», ma a dire il vero, Francesco, è stato l’icona della squadra capitolina, il così definito «Ottavo Re di Roma»: non menzionare la sua importanza sarebbe dunque un torto a tutto il mondo del calcio. I «nuovi» tifosi si trovano perfettamente in simbiosi con l’ideologia calcistica: lo spavaldo 4-3-3 zemaniano si sposa perfettamente con l’ambiente.
Nella regione Lazio il derby tra le due squadre capitoline è più che una partita, è una «lotta» per l’onore e per la gloria, qualcosa che si vive visceralmente già due settimane prima. Per le strade, nei bar, tra i campetti di periferia, il derby è un misto di emozioni e sentimenti che non possono essere raccontati, perché vanno vissuti.
«Il derby è una partita come tutte le altre» afferma Zeman pubblicamente, non solo per il livello spettatoriale, ma anche e soprattutto per i punti in classifica; se si vince si ottengono tre punti, se si pareggia uno, e se si perde zero, come in tutti gli altri scontri. Ovviamente questo fa scalpore, ma come già accennato, il boemo non ha problemi nel condividere ciò che pensa. Questa è una delle sue peculiarità, ma sarà anche ciò che non gli permetterà di «spiccare il volo» e conquistare panchine di livello massimo, e trofei. Come quando alla fine degli anni Novanta condanna il sistema calcio che sta prendendo forma in una veste che lui non riesce ad accettare: «Io vorrei che il calcio uscisse dalle farmacie e dagli uffici finanziari e rimanesse soltanto sport e divertimento… ma il calcio è sempre più un’industria e sempre meno un gioco».
Tra qualificazioni in Champions League conquistate, risultati altalenanti, e rivoluzioni societarie, Zeman viene accompagnato alla porta e costretto a continuare la sua carriera altrove. Da lì si profilano altre opportunità tra estero e Italia, esperienze però non indimenticabili.
Dopo un ritorno nella capitale e una parentesi a Cagliari, il boemo arriva a Lugano, dove a dire il vero, oltre alla permanenza in Raiffeisen Super League (ndr: massima competizione a livello nazionale) e a una finale di Coppa svizzera conquistata, non lascia il segno. Forse qui, Mister, ci si aspettava qualche disamina ulteriore.
Ovunque Zeman sia stato, non ha mancato di creare delle divisioni per motivi di natura diversa, ma non è un caso se chiunque abbia avuto il piacere di rapportarsi con lui, lo apprezzi profondamente; da Totti fino a Pep Guardiola, passando per Massimo Moratti, tutti hanno elogiato la sua idea di calcio e speso parole al miele per lui. Ultimo, ma non per importanza, anche un certo Arrigo Sacchi, che disse di lui: «Zeman è un grande maestro di calcio. Le sue squadre hanno uno stile in un Paese dove poche cose hanno stile. Lui ha cercato di vincere attraverso il merito e la bellezza, in un Paese che non sempre riconosce il merito e la bellezza».