Intervista ◆ Steven Wilson, fondatore dei Porcupine Tree, racconta il suo nuovo album e come sta cambiando il modo di fare musica
Una carriera che è iniziata alla fine degli anni ’80 a Londra e che sembra aver preso tutte le direzioni possibili. Steven Wilson è stato definito come la più inconsueta delle rockstar. Con la band che fondò da ragazzo, i Porcupine Tree, ha firmato dischi di culto, l’ultimo dei quali è Closure/Continuation del 2022, arrivato ai vertici delle classifiche di più di 20 Paesi e al numero uno in Svizzera. Wilson, che oggi vive a Brighton dove ha allestito uno studio di incisione, è anche un richiestissimo produttore, ingegnere e tecnico del suono, ha una carriera solista di grande successo affiancata da un’eclettica militanza in altri progetti musicali (Blackfield, No-Man, Bass Communion). The Harmony Codex è il suo settimo lavoro solista, un concept album che lo conferma come artista sempre in evoluzione, proiettato nel futuro, affezionato ai suoi modelli musicali, ma mai spaventato dal cambiamento.
Hai definito The Harmony Codex come un viaggio in cui gli ascoltatori non sanno mai cosa aspettarsi.
Mi piace pensarlo come un’opera cinematografica creata per l’ascolto. Ho lavorato a lungo per realizzare un’esperienza il più possibile tridimensionale e immersiva, non pensando ai generi ma a un percorso che possa sorprendere sempre. Ho presentato The Harmony Codex in alcune sessioni in cui un pubblico selezionato ascolta i brani sfruttando impianti sonori a 360° basati sulla tecnologia «Spatial Audio» con cui le canzoni sono state realizzate. In queste sessioni si ascolta l’album per intero, al buio, come se si stesse al cinema. Mi piacerebbe che fosse ascoltato sempre così, senza distrazioni. È il modo con cui io sentivo la musica da ragazzo. Oggi invece si tende a considerare la musica solo come sottofondo mentre siamo impegnati in altre attività.
Le canzoni sono ispirate a un racconto pubblicato nel tuo libro Limited Edition of One.
Sì, è una storia distopica su due ragazzi che rimangono intrappolati in un edificio della City di Londra durante un attacco terroristico. Scappando si trovano su una scala infinita da cui non riescono a uscire. È una metafora sul viaggio e sulle sfide della vita, la musica vuole ricostruire questo scenario che ricorda i disegni di M. C. Escher. Ma anche se le canzoni hanno a volte un filo conduttore cupo, il messaggio è quello di accettare tutte le cose che accadono nelle nostre vite e percepirne la bellezza. Come dico in un verso del brano What life brings: «Ama, Ama tutto e tienilo nelle mani».
Un disco solista nel 2021, The Future Bites, l’album dei Porcupine Tree nel 2022, oggi un nuovo lavoro. Come riesci a gestire diversi progetti insieme?
Se oggi compongo musica lo faccio principalmente con la prospettiva di un disco solista. Sono stato abituato a comportarmi come un giocoliere, portando avanti diversi lavori contemporaneamente e ho fatto così sin dai miei esordi quando incidevo sia con i Porcupine Tree che con i No-Man, poi si sono aggiunti anche gli altri progetti musicali, Blackfield e Bass Communion. In realtà in questi anni tendo a concentrarmi di più su singoli lavori. Ho iniziato a dedicarmi a The Harmony Codex all’inizio del lockdown e ho proseguito per i successivi tre anni. È vero che il disco dei Porcupine Tree è stato finito in questo periodo, ma in realtà era stato scritto dieci anni fa e fu poi accantonato perché la band non era attiva. Negli ultimi cinque o sei anni gran parte del mio lavoro creativo direi che è rivolto quasi esclusivamente ai miei album solisti e tendo sempre di meno a fare il giocoliere.
I tuoi dischi solisti sono ricchi di ospiti. Uno dei brani più belli di The Harmony Codex è un duetto con l’artista israeliana Ninet Tayeb. La cantautrice svizzera Sophie Hunger ha cantato con te nell’album To the Bone. In The Future Bites hai ospitato Elton John. Come nascono queste collaborazioni?
Scelgo molto per istinto, mi piace essere sorpreso, ispirato, travolto dalla musica. La collaborazione con Ninet è nata qualche anno fa per una canzone intitolata Routine che si basava su un punto di vista femminile. Feci cantare il brano da diverse cantanti, ma la sua interpretazione fu quella che mi diede i brividi. Sperimento, provo, cerco voci differenti, valuto varie combinazioni di musicisti, magari anche per lo stesso pezzo e poi arrivo alla versione che individuo come quella che voglio portare a termine. Questo ultimo album è nato così. Ho provato molti musicisti, molte diverse soluzioni e, con un attitudine sempre molto sperimentale, sono arrivato a trovare il suono che volevo. Devo anche essere grato del fatto che pur non essendo un artista mainstream molti musicisti sono interessati a lavorare con me.
L’intelligenza artificiale sta entrando sempre di più nel mondo della musica. Dobbiamo preoccuparci?
Per certi versi nell’industria musicale l’intelligenza artificiale è entrata da molti anni, forse sin da quando fu introdotto il Mellotron, il primo sistema di campionamento dei suoni. Circa vent’anni fa arrivò il software auto-tune che permette di modificare la voce di un cantante e correggere l’intonazione e altri software che aggiustano il ritmo. Sono strumenti con cui conviviamo da tempo. La chiave secondo me è questa. Quando è uno strumento della creatività umana, va bene. Quando la sostituisce, io inizio a preoccuparmi. Per me quello che è bello dell’arte, sia essa musica o altro, è l’imperfezione, la stranezza. È uno spiraglio sulla condizione umana, sulla sua fragilità, la manifestazione di emozioni reali. L’artificial intelligence può solo imitare, ma senza dirci nulla della nostra vita e del dono che rappresenta.
Forse c’è già un abuso nell’utilizzo di questa tecnologia…
Quando ascolto il pop moderno e quello che va per la maggiore io non ci vedo niente. Non è musica che mi parla e sembra già composta in gran parte da intelligenza artificiale e forse è proprio così. Non so esattamente cosa la gente desideri dalla musica pop di oggi. Magari è perché alla mia età non si riesce più a capire i gusti di una nuova generazione e del suo rapporto con la musica.
Hai lavorato al rimixaggio di album classici di grandi artisti quali King Crimson, Van Morrison, Jethro Tull e Who. Un lavoro che forse può essere paragonato al restauro di un quadro antico.
A seconda degli album i fan a volte preferiscono le nuove versioni, talvolta invece mi dicono che rimangono affezionati al vecchio sound, sporco e ruvido. E spesso capisco le loro motivazioni. Ma sicuramente l’analogia migliore è proprio quella del restauro di un affresco o di un dipinto. Non cambi per nulla l’immagine, la rappresentazione, ma lo rendi brillante, magari in un modo in cui non è mai stato se non quando fu completato.