Il divario cognitivo tra umani e non-umani è il tallone d’Achille dell’evoluzione, tanto più in quanto non ci sono primati che, per esempio, parlano un po’ meno bene di noi, stando qualche gradino più in basso nell’ipotetica scala che potrebbe graduare l’accesso a un linguaggio pienamente fluido e a capacità cognitive capaci di mandarci nello spazio. Il proto-umano che, in 2001: odissea nello spazio, lancia in aria il femore col quale aveva difeso il suo pasto a terra, nella sequenza successiva del film di Kubrick è già un astronauta – senza passare da gradi intermedi, quasi a incoraggiare l’ipotesi di un intervento soprannaturale.
Alfred Russel Wallace, cofondatore insieme a Darwin della teoria dell’evoluzione per selezione naturale, sentiva con urgenza la necessità di dare una spiegazione a questo problema, chiedendosi perché la nostra specie ha sviluppato una mente di gran lunga più potente di quanto sarebbe necessario per sopravvivere. Una domanda, alla quale anche Darwin faceva fatica a trovare una risposta, ipotizzando che, probabilmente, è stato l’«uso continuativo» del linguaggio a distinguerci progressivamente dagli altri primati.
Il tema della nascita del linguaggio – forse perché intrecciato alla nascita della mente e della coscienza, facoltà che contraddistinguono la nostra specie – ha sempre accompagnato la riflessione dei linguisti, che vi si sono avvicinati con metodologie diverse. Pressoché al termine della sua lunga vita, il linguista inglese Derek Bickerton pubblicò la summa della sua ricerca nel volume tradotto presso Adelphi con il titolo: Quello di cui la natura non ha bisogno. Linguaggio, mente ed evoluzione.
Si tratta di un’opera impegnativa, sia perché innova profondamente questo campo di ricerca facendo ampio ricorso alle recenti acquisizioni nell’ambito delle neuroscienze e della biologia, sia perché, ricorrendo a una dovizia di riferimenti bibliografici, ogni pagina è in dialogo con la comunità scientifica che si è occupata di questi problemi negli ultimi cinquant’anni – sebbene l’interlocutore di maggior rilievo sia il linguista Noam Chomsky.
Bickerton è stato il maggior specialista mondiale delle lingue creole e dei pidgin, da lui studiati in Africa e alle Hawaii. Le lingue creole – come il giamaicano – sono ben strutturate e nascono dalla combinazione di due o più lingue, le quali forniscono loro il lessico. I pidgin, invece, sono degli idiomi anch’essi caratterizzati dalla mescolanza di lingue diverse ma non ancora strutturati dal punto di vista sintattico. In contesti caratterizzati da schiavismo, migrazioni forzate e no, colonizzazioni e relazioni commerciali, nei Caraibi, in Africa e in Oceania, i pidgin hanno sempre preceduto le lingue creole. Il merito di Derek Bickerton è stato quello di aver compreso che, in tutti questi contesti geografici, furono i bambini a trasformare i pidgin in lingue creole, spontaneamente operando in modo da introdurre semplici regole grammaticali di base.
Condividendo con Chomsky la convinzione che il genere umano dispone di un piccolo insieme di algoritmi che il linguista statunitense ha chiamato «Grammatica Universale», Bickerton – che nel suo programma di ricerca era orientato dal progetto di dimostrare la natura esclusivamente biologica della nostra disposizione al linguaggio – ha scritto che «il bambino si comporta esattamente come il ragno, il castoro o il pipistrello: il programma biologico che sovraintende a ciò che la specie fa meglio semplicemente si mette in moto da solo, quando viene stimolato dalle parole pronunciate nell’ambiente circostante».
Siccome portatori biologici delle regole fondamentali della grammatica, vale a dire quelle che presiedono alla sequenza degli accostamenti, i bambini sono dei grammaticalizzatori innati, cosicché, sebbene un pidgin non sia la lingua-madre di nessuno, «se acquisito dai bambini, si regolarizza in fretta e sviluppa tutte le risorse di una vera e propria lingua umana».
Appurato ciò, l’ambizione di Bickerton rimaneva quella di dare una risposta alla domanda di Wallace: perché siamo dotati della mente che abbiamo, apparentemente così eccessiva rispetto alla necessità degli altri primati? Per l’autore inglese, se è vero che i bambini hanno un programma linguistico innato, così come i ragni sono programmati a tessere tele o gli uccelli a cantare nei modi specifici della loro specie, si tratta di capire quando, nel corso della nostra evoluzione, acquisimmo questa proprietà biologica.
Movendo dal presupposto che la nostra specie condivideva con gli altri primati la capacità di attirare l’attenzione degli altri per mezzo di gesti e grida, il concetto fondamentale al quale ricorre Bickerton è quello di «nicchia ecologica». Secondo l’autore inglese, il processo che ha allontanato la comunicazione umana dai segnali legati agli stimoli tipici degli altri animali fu il «dislocamento referenziale» praticato nella cooperazione che mettemmo in atto quando diventammo saprofagi.
Prima ancora di essere cacciatori, infatti, fummo saprofagi. Ben attenti a non essere prede, ci cibavamo della materia organica animale abbandonata dai grandi predatori. Ne è prova il fatto che nel nostro DNA i geni che codificano per l’assimilazione della carne in decomposizione sono apparsi prima di quando divenimmo veri e propri cacciatori, divoratori di carne fresca prima, e cotta poi. Ebbene, per coordinare l’azione cooperativa utile alla saprofagia, cominciammo a usare suoni emessi dall’apparato fonatorio non per fare riferimento a cose del mondo bensì a esperienze condivise dal gruppo e presenti solo nel ricordo comune – uno slittamento dal «fuori» al «dentro» che, appunto, Bickerton chiama «dislocamento». La specifica nicchia ecologica della specie «Homo» fu dunque la saprofagia e l’uso simbolico dei suoni emessi dall’apparato fonatorio.
Per spiegare come giungemmo a far evolvere il linguaggio che ci caratterizza come specie, ricorrendo alle scoperte delle neuroscienze, Bickerton trova la spiegazione nel fatto che le reti neurali nel nostro cervello si consolidano con la ripetizione e che, quindi, nel contesto sociale della saprofagia, l’uso continuativo delle prime proto-parole (come aveva intuito Darwin) consolidò specifiche configurazioni neurali, le quali furono all’origine di una pressione sul nostro genoma, tale da selezionare i geni in grado di codificare per una buona esecuzione delle proto-parole dapprima, e in seguito delle semplici regole di base per il loro accostamento. Non servì altro. «Ciò che sto proponendo è solo questo: una volta che i nostri progenitori abbiano incominciato a parlare, anche soltanto a livello di pre-linguaggio, il loro cervello avrebbe iniziato a elaborare degli schemi per rendere la produzione di frasi un’operazione routinaria».
Derek Bickerton ha dato una risposta naturalistica alla domanda di Wallace, mostrando che, sebbene la mente umana sia effettivamente uno sviluppo evolutivo improbabile, è tuttavia stata resa possibile dalla pressione esercitata dalla nicchia ecologica in cui ci trovammo a vivere; il resto ha funzionato un po’ come un dente d’arresto: acquisite certe facoltà, non abbiamo più potuto tornare in dietro.