Cervello, questo (s)conosciuto

Un cervello per sempre giovane: chi non ha mai accarezzato questo desiderio? Logico, anche se forse banale, domandarsi se sia solo un’utopia. Abbiamo cercato una qualche risposta valida, affidandoci al direttore del Neurocentro della Svizzera italiana, Alain Kaelin, il quale esordisce prendendosi il tempo di una riflessione comune, e spiegando dapprima la missione divulgativa della Lega svizzera del cervello di cui è vicepresidente: «È nata nel 1995 con la necessità di informare la popolazione su tutto ciò che riguarda la salute cerebrale prima che le malattie e su come mantenere sano il nostro cervello lungo la vita. Fu fondata da neurologi che hanno pure compreso l’importanza della ricerca sul cervello e della sua divulgazione (da noi fra le migliori al mondo) sostenuta con forza dalla Lega svizzera».

Qualche esempio dei risultati già conseguiti: «Gli importanti progressi fatti nella cura dell’ictus cerebrale, della sclerosi multipla e del morbo di Parkinson dimostrano la giusta direzione della ricerca; d’altronde, la Lega sostiene ad esempio anche gli sforzi per informare la popolazione e migliorare la terapia del morbo di Alzheimer, studi su depressioni, tumori cerebrali e dipendenze».

Il cervello è il nostro organo più importante: comanda il corpo, i sensi e le emozioni. Quanto lo conosciamo? Quesito al quale il nostro interlocutore risponde con un sorriso: «In realtà, conosciamo molto e poco. Molto se paragoniamo il nostro sapere a quello di circa 150 anni fa, quando a Parigi il dottor Jean-Martin Charcot fu uno dei primi a indagare le malattie neurologiche in un modo scientifico studiando il cervello dei pazienti deceduti per individuare la regione lesa o toccata secondo i sintomi delle malattie neurologiche manifestati da vivi. Così ha scoperto la sclerosi multipla. Sappiamo invece ancora troppo poco se pensiamo che oggi abbiamo i mezzi per “fotografare” un cervello vivo (risonanza magnetica) o per misurarne la sua attività elettrica (elettroencefalografia), ma con immagini troppo grossolane per poter vedere come sono e come lavorano i miliardi di neuroni e di sinapsi». È come osservare una città da un satellite: «La vediamo nel suo complesso, ma non capiamo cosa succede nelle sue strade e case e non possiamo focalizzare precisamente le attività che vi si svolgono, a causa del livello di granulosità elevato delle immagini, della visione sommaria che non ci permette di vedere la relazione fra i “mattoni” che lo costituiscono e il suo funzionamento globale».

Il neurologo è certo che sia una fase transitoria: «Siamo usciti dal Medioevo delle neuroscienze e andiamo verso la comprensione più globale, ma mancano ancora tanti pezzi». Il cervello umano è ancora abbastanza misterioso, non lo possiamo «guardare» nel profondo, ma gli studi sugli animali sono di grande ispirazione: «Sappiamo un po’ di più osservando i modelli animali e le colture di cellule: ad esempio, capiamo bene le strutture nervose semplici dagli studi sulla drosofila (ndr, il moscerino della frutta), ma noi umani siamo molto più complessi ed è molto più difficile studiare il nostro cervello funzionante».

Pure se riuscissimo a vedere i nostri neuroni, sarebbe come aprire una Matrioska: «Hanno miliardi di sinapsi che non possiamo vedere, perché ogni neurone è come un piccolo computer. Sarebbe voler capire un sistema di miliardi di computer che lavorano insieme. I neuroni sono in grado di adattarsi, imparare, quindi oggi ci è molto più facile comprendere questi “mattoni” del cervello rispetto a un tempo. Ma un mattone è solo quel piccolo computer che lavora insieme ad altri miliardi come lui».

Tanto resta ancora irrisolto: «Ad esempio, abbiamo la necessità di passare un terzo della nostra vita dormendo, senza sapere ancora perché tutti abbiamo bisogno di dormire». Un «grande mistero», quello del sonno, chiosa Kaelin: «Ci affascina perché sappiamo che gli animali per sopravvivere ne hanno bisogno, ma continuiamo a non capire perché sia è davvero così necessario». L’aspetto filosofico, ben argomentato anche dal professor Arnaldo Benini, complica le cose: «Il cervello non potrà mai capire sé stesso: esso rimane all’interno di un’autoreferenzialità che gli impedisce di conoscersi alla perfezione, per il fatto che un meccanismo può essere compreso soltanto da un altro più complicato di lui. E non c’è nulla di più raffinato del cervello».

Kaelin parla pure di una «fase di transizione» nella quale i progressi delle neuroscienze e quelli tecnologici «sono nettamente migliorati, ma producono l’impressione errata di riuscire a capire il nostro cervello, cosa dalla quale invece siamo ancora molto lontani». Siamo però in grado di stimolarlo per curare alcune malattie: «Con la stimolazione nervosa profonda, per esempio, possiamo migliorare i sintomi del morbo di Parkinson: un progresso enorme, anche se un elettrodo di un millimetro non può essere selettivo come vorremmo, perché sa stimolare una regione di neuroni molto grande. Ma solo cinquant’anni fa questa terapia non esisteva, anche se è ancora molto grossolana per una struttura così complicata come il nostro cervello».

Quindi, oggi si comprendono sempre meglio le malattie che lo affliggono, e ciò permette di capire meglio anche il funzionamento di un cervello sano: «Sono due importanti tipi di ricerca complementari». L’apprendimento cerebrale ha sempre affascinato i ricercatori: «I primi vedevano il cervello come qualcosa di “fisso”, che non si rigenera. Ma se così fosse, come fa il musicista a imparare a suonare uno strumento musicale? Come facciamo a imparare ad andare in bicicletta, e lo sapremo fare tutta la vita, se il nostro cervello fosse davvero così?».

In realtà il cervello si evolve, si muove, è «plastico»: «Non smette mai di imparare perché ha una plasticità per tutta la vita, seppur modulata alla conservazione delle nozioni e delle esperienze che ci è necessario acquisire e ricordare. La natura stessa lo ha programmato in modo che all’inizio del suo sviluppo, esso sia molto plastico. Poi, si perde un po’ di questo: non è un errore ma una necessità per il buon funzionamento di un sistema così complesso».

Non troppo e non troppo poco, così come di esso sappiamo molto ma non tutto: «Si tratta di un saggio equilibrio, una tensione fra i due poli di plasticità (che permette di evolvere, imparare e in parte riparare) e stabilità (per favorire un funzionamento stabile e una memoria affidabile)». Allora, un cervello sempre giovane è un’utopia! «Le rivoluzioni scientifiche arrivano senza annunciarsi e le scoperte improvvise permettono di fare balzi nella ricerca e nel sapere, ma ancora non sappiamo cosa riusciremo a capire di più».

E, conclude Kaelin: «In realtà, dal punto di vista della natura e della vita, l’invecchiamento è un processo naturale necessario, permette la rigenerazione, i cambiamenti da una generazione all’altra, e la fine della vita che, anche se spesso tabù, è necessaria alla vita stessa». Dunque: «Tutti speriamo di invecchiare senza demenza, con un cervello ben funzionante. Però giovane come a vent’anni per il resto della vita, sì: è un’utopia».

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