Incontri 12 – Frequenta, da 18 anni, il dolore di chi deve accomiatarsi da una persona caraVisual designer di formazione, il 33enne Matteo Morniroli ha scelto la professione del necroforo
«(…) Ormai la morte non era più un evento solenne che ispirava commozione nelle persone, ma era percepita piuttosto come una liberazione che suscitava l’invidia dei vivi (…)». Così la morte in Siria, dopo anni di guerra. A raccontarcela in Morire è un mestiere difficile è lo scrittore siriano Khaled Khalifa. La morte, però, è sempre un mestiere difficile: sia per chi deve lasciare andare qualcuno che non rivedrà più, sia per chi deve aiutare coloro che restano a farlo nel modo migliore. È proprio per questo che il giovane che ho incontrato poco più di un anno fa (e del quale state per leggere la storia) non definisce il suo un lavoro, un mestiere, ma una professione. Lui compirà 34 anni il prossimo 12 dicembre, lo scorso 16 agosto è diventato papà di Ludovica e la sua professione è quella di necroforo. Matteo Morniroli – questo il nome del giovane – è il responsabile di Arte Funeraria Locarno della famiglia Delmenico che, nella sede di Lugano, frequenta ormai da 18 anni.
Matteo, 18 anni! Com’è possibile?
Semplice. A 15 anni avevo chiesto ai miei genitori di aiutarmi a trovare un lavoro nel periodo delle vacanze perché volevo comprarmi il motorino. Fu mio padre a trovarmi un’occupazione estiva e io, per due mesi, mi dedicai alla pulizia dei carri funebri, delle camere ardenti e, in genere, degli spazi comuni del Centro Funerario. Fu, quello, il mio primo incontro con l’altra faccia della vita e ho avuto la fortuna di viverlo accanto a persone che nel momento del distacco, della morte, s’impegnavano per celebrare la vita, per me è stato importante. Penso sia stato proprio durante quell’estate che ho capito che vita e morte sono due facce della stessa medaglia e che dovevo assolutamente approfondire. Così, anno dopo anno, fino a quando sono andato alla Statale di Milano (mi ero iscritto, a 20 anni, a Lettere), appena avevo vacanze scolastiche mi presentavo per dare una mano (sommando i vari periodi arrivo a circa un anno e mezzo), ma, soprattutto, per imparare una professione. E, badi bene, allora né sapevo, né pensavo che avrebbe potuto diventare le mia.
Non stento a crederci, ma che cosa l’ha portata a decidere?
Una serie di circostanze. Vedo di andare con ordine. Devo innanzi tutto precisare che, finite le medie avevo scelto la via dell’apprendistato piuttosto che il liceo e, sempre per i casi della vita, mi sono trovato a svolgere il primo anno in qualità di apprendista di commercio proprio al Centro Funerario. Sono stato il loro primo apprendista, ma per me, quello, è stato un anno orribile. Nessun contatto con le persone. Solo ed esclusivamente contabilità e conti. No, non faceva per me e così, sono tornato sui miei passi e sono andato al liceo. Poi, siccome scrivevo bene, la docente di lettere ha consigliato ai miei genitori di farmi proseguire gli studi. Ecco quindi che vado a Milano che, lo ammetto, è stato un altro grande errore. L’idea che mi aveva mosso era quella di recuperare il contatto con le persone diventando docente, ma mese dopo mese cresceva in me un senso di apatia e malessere che dopo un anno e mezzo è sfociato in un abbandono. Io volevo capire, conoscere, interagire. Amavo la fotografia e il cinema e così… ho scelto di iscrivermi al CISA (Conservatorio Internazionale di Scienze Audiovisive). È il 2017, l’anno in cui la scuola trasloca da Lugano a Locarno e io con lei. Sono contento. Sto facendo qualcosa che mi piace e m’interessa. Certo, c’è meno libertà creativa di quanto pensassi, ma… sono contento. Le mie collaborazioni extra-scolastiche però continuano e mi rendo conto che è lì che la vita mi sembra più vera.
Mi faccia capire: la vita vera dove la protagonista principale è la morte?
Non sono un filosofo, quindi non sono in grado di darle una spiegazione di quella che è stata una mia sensazione. Mi limito perciò a riportare il pensiero di riferimento del nostro gruppo che è di Agostino d’Ippona: «Coloro che amiamo e che abbiamo perduto non sono più dove erano, ma sono ovunque noi siamo». Quando qualcuno si rivolge a me, a noi, entra da solo, ma con lui c’è un mondo che, poche ore prima, ha subìto uno stravolgimento. Vede, in quegli anni dal mio mondo pieno di colori vivaci e di immagini incantevoli, passavo nel mondo fatto di colori pastello e di ricordi che – non mi chieda come e perché – vedevo passare negli occhi delle persone che si rivolgevano a noi per l’ultimo saluto. La vita era anche quel contrasto di luci e ombre. Anno dopo anno, guardando e ascoltando i miei datori di lavoro, avevo imparato diverse cose e mi ero guadagnato la loro fiducia. Non dimenticherò mai il giorno in cui mi sono trovato in prima fila per la cerimonia di commiato di un uomo che avrebbe salutato per l’ultima volta la sua compagna della vita. Lo ricordo ancora quel signore, pieno di dignità e dolore. So che alla fine mi si è avvicinato e guardandomi dritto negli occhi mi ha preso la mano, l’ha stretta, mi ha abbracciato e, tra le lacrime, mi ha detto: «Grazie!». Era di quell’umanità, di quella vicinanza fatta di rispetto ed empatia che avevo bisogno per dare un senso alla mia vita.
Capisco, ma lei sta studiando a Locarno per poi occuparsi di cinema…
È vero… come è vero che a inizio 2020 ottengo il diploma del CISA. Comincio così a mettere a frutto quel che ho imparato. Poi un giorno ricevo la telefonata che mi cambierà definitivamente la vita. «Sono Emiliano. Uno dei nostri impiegati ha avuto un infortunio. Sarà assente per almeno sei mesi. Potresti darci una mano?». La mia risposta è affermativa. Raggiungo quello che è il mio luogo di lavoro estivo sebbene sia inverno. Poche settimane dopo – il 10 marzo – c’è in Ticino il primo decesso causa Covid19. Il 12 marzo scatta il lockdown e, giorno dopo giorno, giornali, radio e TG aprono con il numero dei morti. Parafrasando Guccini «la vita e la morte diventano uguali», ma paradossalmente la nostra professione si trova ad affrontare una crisi senza precedenti. Il funerale, come momento di saluto e d’intimità, cessa di esistere. Molti familiari non possono più rivedere i loro cari dopo il ricovero in ospedale e noi… noi invece li vediamo per trasferirli da un letto a un sacco, da un sacco alla bara e da lì direttamente al crematorio. Sono scioccato pensando alle persone che ho conosciuto negli anni, ai loro racconti, ai loro addii e mi trovo a pensare a quelli che, causa pandemia, non avranno neppure il conforto dell’ultimo saluto o il calore di un abbraccio.
Soluzioni?
Onestamente, sulle prime, oltre a un super-lavoro solo un grande smarrimento. Lei si ricorderà che per tutte le cerimonie il numero massimo di persone era di cinque. Valeva per tutti, non solo per chi, causa Covid19, aveva perso una persona cara. Ho visto famigliari depennati dalle liste di chi avrebbe potuto partecipare al funerale e noi, come tutti, non potevamo nemmeno stringere la mano alle persone che si rivolgevano a noi per avere non solo un servizio, ma anche un sostegno. È a quel punto che mi è nata l’idea: perché non usare le competenze acquisite al CISA per garantire almeno una parvenza di ultimo saluto condiviso? Ho così proposto di installare delle telecamere nello spazio cerimonie e di organizzarci per dei collegamenti streaming. Certo, non era la medesima cosa che essere lì, con parenti e amici, ma… pur non essendo in presenza fisica il poter partecipare era già una piccola stampella per reggere un dolore forzatamente dilatato. Glielo dico con quasi certezza perché in quei giorni mi sono trovato a organizzare anche il funerale di mia nonna, una delle persone che ho maggiormente amato. I nostri parenti di Milano hanno potuto seguire la cerimonia in diretta live su YouTube. Non è stato come essere lì tutti insieme, ma… già solo vedere (oltre che sapere) che c’eravamo è stato d’aiuto.
Matteo, lei ha senza dubbio la forza dell’empatia, ma la sua professione resta pur sempre quella del necroforo…
È vero e, sinceramente, sulle prime mi sentivo piuttosto imbarazzato. Poi mi sono detto che io stavo-sto svolgendo la professione che volevo esercitare e che ho scelto, una professione che mi permette di dare un po’ di serenità alle persone in un momento in cui, a riempire le loro vite, sono il dolore, la tristezza, la malinconia. Certo che vedere me che mi guardo dal bus che mi sta davanti come volto delle onoranze funebri, continua a farmi una certa impressione. Le posso però assicurare che fintanto che la sera, prima di addormentarmi, potrò dire di aver aiutato qualcuno ad apprezzare la vita anche davanti alla morte, andrò avanti. È la mia vita, ma, soprattutto, è la professione che ho scelto e che amo.