Mike Johnson è il nuovo speaker del Congresso americano: ha 51 anni, è un conservatore e ha una carriera da parlamentare molto breve, essendo stato eletto la prima volta nel 2016. Molti hanno ironizzato sul fatto che quando il suo nome è emerso nella corsa per diventare speaker – una corsa molto rapida e livorosa – siano corsi su Google per capire di chi si trattasse. È significativo che, dopo averlo capito, lo hanno scelto comunque: nel suo curriculum c’è quasi esclusivamente una grande fedeltà a Donald Trump e al trumpismo, compreso il sostegno alla sciagurata pretesa che Joe Biden non abbia vinto le elezioni del 2020 e che sia un impostore che occupa la Casa Bianca. È altrettanto significativo che, dall’altra parte dell’Atlantico, stiamo qui a discutere della figura dello speaker del Congresso, che è come in tutti i Parlamenti il negoziatore in capo, la persona che deve trovare i compromessi necessari per far funzionare le assemblee rappresentative. Non è certo la prima volta che uno speaker non riesce a costruirlo, questo compromesso, e non è una caratteristica esclusivamente americana, ma la scelta di Johnson è in questo senso abbastanza unica.
È senza esperienza né dimestichezza dei meccanismi parlamentari ed è stato scelto proprio perché è un «outsider», definizione amata dal trumpismo che spesso coincide con la mancanza di competenza, e perché è leale al trumpismo. In sintesi: i compromessi con Johnson saranno ancora più difficili. L’elezione del nuovo speaker coincide con due appuntamenti importanti per il dibattito americano: il budget che evita il tanto temuto shutdown – la sospensione delle spese correnti – e il grande pacchetto da 105 miliardi di dollari richiesto dalla Casa Bianca per sostenere la difesa di Israele, dell’Ucraina e di Taiwan. Per quel che riguarda il budget, eravamo in questo stesso punto a settembre, quando il predecessore di Johnson, il repubblicano Kevin McCarthy, aveva raggiunto un accordo dell’ultimo minuto con i democratici per evitare lo shutdown ed è stato poi sfiduciato proprio per aver osato – uno speaker! – aprire il dialogo con l’altro partito con l’obiettivo di evitare una misura che ricade sugli stipendi dei dipendenti pubblici americani. Johnson riparte da qui, ha tempo fino al 17 novembre per trovare i voti.
Si è aggiunto il pacchetto sul sostegno agli alleati internazionali che unisce, per volere presidenziale, l’Ucraina e Israele, che è stato attaccato dai terroristi di Hamas. Biden dice che l’America è una superpotenza, è in grado di gestire due crisi (anche di più) allo stesso tempo e di dare tutto il sostegno necessario per sconfiggere la Russia e Hamas. Per Biden è un’unica lotta democratica e liberale su fronti diversi e spinge perché sia combattuta con lo stesso impegno, contemporaneamente. Per molti repubblicani invece Israele va difeso a ogni costo ma l’Ucraina no, quindi gli aiuti a Israele vanno dati subito e quelli per l’Ucraina possono attendere. Le posizioni sono più sfumate di così, e ci sono anche parecchi repubblicani che il pacchetto completo lo voterebbero oggi stesso per ragioni magari diverse da quelle di Biden, ma con lo stesso obiettivo ultimo di difesa democratica. Ci sono poi gli ambigui, come lo stesso Johnson: dice di essere a favore degli aiuti all’Ucraina ma ha voluto sfaldare il pacchetto unico proponendo una legge di aiuti soltanto per Israele, a Kiev si penserà dopo. I democratici, che sono per la grande maggioranza a favore di Israele, non possono che votare gli aiuti, ma sanno che in questo modo cadranno nella trappola di chi, come Johnson, vuole separare gli aiuti a Kiev. Non è infatti una questione tecnico-procedurale e nemmeno una di urgenze: è che la difesa dell’Ucraina è per molti una fissazione di Biden e come tale va utilizzata politicamente contro di lui. Per di più, considerata l’inesperienza di Johnson, è difficile pensare che riuscirà a contrastare le pressioni dei trumpiani che vogliono affossare gli aiuti all’Ucraina. In questo scontro politico entrano anche altri elementi – nel pacchetto da 105 miliardi è compreso uno stanziamento per la difesa del confine sud dell’America – ed è plausibile pensare che anche da parte democratica sia necessario un compromesso. Ma quel che Mike Johnson (uno che pensa di essere stato scelto perché lo ha voluto Dio) e molti repubblicani sottovalutano non è solo il fatto che non aiutare Kiev significhi una vittoria di Putin, ma che il declino del modello Usa sia, per il partito dell’eccezionalismo americano, una contraddizione pericolosa.